Due passioni mi accomunano a Enrico Garzia, patron del Turcotto: la caccia e il crudo di pesce.
Grande cinofilo, costruttore attento di un’ ottima linea di sangue nella grande famiglia dei setter, che possiamo definire “la più affollata razza di cani da ferma italiani”. Sì italiani, perché grazie a tanti allevatori e cinofili come Enrico, si può dire che nel mondo i migliori soggetti di questa razza, originariamente creata in Inghilterra, sono italiani. Non solo, ma si può dire che l’Italia conta il maggior numero di iscrizioni, più che nel Regno Unito. Sono stato anch’io setterista per una vita e so quel che dico, quindi non vi scandalizzate se ho definito “cani da ferma italiani” questi meravigliosi corridori nel vento, felini nella guidata come un ghepardo che insidia la preda. Dunque la caccia ci ha fatto amici. Ma voglio strizzare l’occhio agli altri appassionati: il crudo di pesce ha rinsaldato questa amicizia.
Io sono di origini pugliesi. La mia famiglia viene da Polignano a Mare dove da sempre ( e non per una moda moderna) il pesce lo si è mangiato crudo e non perché manchino le buone ricette, ma perché solo così ti porti in bocca il mare. Mio zio Ciccio, buonanima, quand’ero ragazzino (e proprio ad Anzio) mi insegnava a correre dietro ai granchi lì sui ruderi semisommersi della villa di Nerone (proprio dove si affaccia il Turcotto), a strappargli le chele e a succhiarle insieme agli umori marini imprigionati nel carapace.
Dunque è lì al Turcotto, quasi appoggiato alla balaustra che dà sul Mare Nostrum, ma anche su quel che resta della villa di Nerone e sulle magie dell’Arco Muto, che io do felice sfogo alla mia più grande passione gastronomica: il crudo di pesce. Sempre vario, sempre fresco e profumato, sempre arricchito dalle continue invenzioni di Enrico che è capace di creare i più azzardati accoppiamenti di sapori e di colori. Di vini ce n’è una grande scelta, ma io non tradisco mai il Cacchione, vino della mia infanzia, sempre nel ricordo di mio zio Ciccio che mi portava per le fraschette di Anzio e Nettuno. Lui si faceva la “fojetta” di Cacchione e per me ordinava la gazzosa con la pallina di gomma. I più vecchi la ricordano. E poi le olive piccanti farcite, i filetti rossi di alici , le coppiette di somaro. Tutta roba che bruciava in bocca e aiutava a bere. E dovete sapere che in nettunese Cacchione è “ un bullo, gagliardo e sfrontato”. Il vitigno cresce sul macco bianco, una pietra morbida di origine vulcanica, che abbonda in quelle campagne, e con la quale mio padre e zio Ciccio tracciavano i sentieri in giardino. Vedete a quante cose mi mi fa pensare il Turcotto. E anche queste mi legano a Enrico.
E quando vado a trovarlo, e lui mi coccola con portate di crudo da farsi il segno della croce, gli parlo (perché è molto più giovane di me) di quando noi ragazzi che eravamo ad Anzio in villeggiatura facevamo l’apertura della caccia a Tre Cancelli, verso la strada del Poligono, tra boschi di farnie e vasti acquitrini, in cerca di croccoloni, o pizzardoni, come li chiamavamo i cacciatori dell’agro pontino. Era subito dopo Ferragosto. Poi vennero le aperture alla terza settimana di settembre e i croccoloni uscirono dal mio immaginario cinegetico. Chi li ha più visti? Pensavamo fossero estinti, invece semplicemente partivano un mese prima dell’apertura. Li ho rincontrati quindici anni fa in un fondo chiuso ai piedi delle Mainarde, ricco di acque e di sterco di cavalli e vaccine. Avevo portato lì nei giorni di Pasqua la mia ultima setter, l’indimenticabile Riva, figlia di Ira, nipote e pronipote di Cecilia. La quadrisavola era Susi. Sono i famosi bianco-rossi di Alberto Marinelli. Mi fermo se no mi metto a piangere. Volevo farle sentire i beccaccini. Macché, mica li fermava, me li frullava a decine. Finché, finalmente, la vedo cadere in ferma, sdraiata, pancia a terra come tutta la sua meravigliosa genìa. Dopo due o tre gattonate, il frullo. Era il primo croccolone dopo cinquant’anni. E poi un altro, e poi un frullino, e un croccolone. Quelli sì, che li fermava. I ricordi si accavallano. Colpa del crudo di Enrico e di qualche bicchiere di Cacchione in più.
Insomma, torniamo al Turcotto. Qualche giorno fa abbiamo festeggiato ad Anzio i 200 anni del ristorante. Duecento anni e non li dimostra. C’erano ottocento persone, amici, clienti, gente della politica e dello spettacolo. Forte il tasso di cacciatori, venuti da tutti Italia, ma anche dalla Croazia, a festeggiare Enrico, l’attuale titolare. Enrico nella vita si è fatto onore, oltre che come cinofilo, anche come ristoratore. L’anno scorso ha rappresentato la cucina italiana a Mosca, tra strepito di pentole e applausi di russi. Non lo volevano lasciare andar via. Insieme al ristorante dei Cacciatori di Nettuno, il Turcotto è stato insignito di un premio dedicato al migliore ristorante della costa tirrenica. Alla festa di compleanno c’erano quasi cento metri di buffet con molte delle specialità “pronte” del Turcotto. C’era anche il buffet del crudo, dove chi mi cercava, poteva trovarmi. Festa bella, calda, amichevole. Un’atmosfera che, permettetemi di dirlo, solo i cacciatori sanno creare. Ma anche raffinata, allietata da un giovanissimo quartetto d’archi e di un duo di chitarra e flauto, tutti studenti della scuola di musica di Anzio.
Enrico ha faticato a firmare le 800 copie del volume che celebra il bicentenario. E’ qui che apprendiamo la storia del ristorante e della famiglia Garzia, venuta in Italia dalla Spagna a metà del ‘700. “Mio nonno lo chiamavano Turcotto per la sua mania di portar e sempre un fez alla turca” . Così scriveva Giovanni Garzia parlando di Nicola Gaetano Garzia che per primo aprì sulla riviera di ponente, proprio sulle rovine della villa di Nerone, un’osteriola, subito frequentata dai romantici viaggiatori e pittori stranieri. Ne scrissero il medico Adone Palmieri, autore di una Topografia statica dello Stato Pontificio, e il grande studioso Ferdinando Gregorovius, al quale tanto dobbiamo nella comprensione della storia del nostro Paese.
Insomma, duecento anni durante i quali molti regnanti, le più grandi personalità della politica, delle arti e delle professioni si sono affacciati sul mare da un tavolo del Turcotto. E da sempre, anch’io.
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