La caccia al ghiro, oggi vietata, è una tecnica che riporta indietro nel tempo. Riscoprirla significa far luce su una piccola creatura le cui carni ne hanno lungamente fatto preda ambita.
Ci sono tecniche di caccia che per un motivo o per un altro hanno fatto il proprio tempo, e per quanto siano state dismesse da pochi decenni, vengono dimenticate molto rapidamente. E’ un po’ quello che è capitato alla caccia al ghiro, ben nota in tutta la Calabria, dove il ghiro era preda ambitissima. Oggi lo conosciamo come animale sonnolento, roditore, che fa simpatia un po’ a tutti e che non si mostra troppo volentieri. Appartiene alla famiglia dei gliridi e di norma non supera i 20 centimetri. Le sue orecchie sono piccole e appuntite, nude, mentre il corpo è caratterizzato da una morbida pelliccia grigiastra e marroncina, in alcune zone argentata. La coda è invece lunga e folta.
Vive di frutti, di ghiande e di noci, e la ricerca del cibo è una delle principali occupazioni del ghiro. Si muove esclusivamente al buio e i sensi che utilizza maggiormente durante i suoi spostamenti sono il tatto e l’udito: vibrisse lunghe 6 centimetri, cuscinetti e peli tattili sono le sue armi principali. A grande sorpresa si scopre che il ghiro è dotato di unghie aguzze che gli consentono di arrampicarsi sui rami sottili e pare essere in grado di compiere salti anche di un metro di lunghezza. Non è un caso che faccia il suo nido nelle cavità dei tronchi, meglio se grandi e dotati di un’imboccatura fina, per evitare che i predatori disturbino la sua quiete. Se non prendesse questo genere di attenzioni faine, volpi o civette potrebbero divorargli con una velocità sorprendente l’intera nidiata.
Trascorsa l’estate i ghiri con il loro ricco bottino di semi si ritirano per l’inverno: scelgono tane sotterranee dove trascorrono i mesi freddi stretti e in letargo. Da qui il luogo comune che vuole i ghiri dormiglioni. Si risvegliano normalmente durante il mese di maggio, magri e deboli: la situazione è risolta dalla presenza del bottino di semi che li aiuta a riprendere la vita dopo il letargo.
La caccia, un tempo praticata specie per fame, è oggi vietata. Il ghiro infatti pur somigliando molto da vicino ad un topo di grandi dimensioni, possiede una carne particolarmente gradita, che ne ha fatto preda ambita.
La tecnica tradizionale prevedeva che la caccia si svolgesse durante la notte, con l’uso di luci artificiali di modo da poter intravederlo durante i suoi spostamenti notturni. In alcuni casi si sistemavano trappole a schiacciamento sugli alberi che il ghiro frequenta con maggiore frequenza: il leccio prima di tutti, seguito dal castagno. L’esca manco a dirlo era rappresentata da ghiande, noci o castagne.
In altri casi la caccia al ghiro veniva praticata con l’uso di armi da fuoco: il ghiro era facilmente individuabile anche grazie al caratteristico stridio che produce. Le aree di caccia erano circoscritte principalmente alle zone interne dell’Aspromonte, ma la si conosceva anche nelle confinanti con la piana di Gioia Tauro; la caccia si svolgeva tra il mese di luglio e quello di ottobre, quando l’animale si sta preparando al suo lungo letargo invernale: proprio durante quei mesi è più grasso e la sua carne più gustosa.
Animale a rischio d’estinzione, la cronaca ancora oggi porta all’attenzione del pubblico vicende di bracconaggio con l’uso di trappole: l’utilizzo della carne di ghiro trova infatti grossa richiesta, e non più solo in ambito familiare, e dunque i carnieri richiesti sono sempre più pesanti.
Se poi si conta anche il pericolo incendi ben diffusi durante la stagione estiva che ne devastano l’habitat, si comprende perché questa piccola creatura stia lentamente scomparendo dal territorio italiano nonostante la protezione riservatagli.
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