Quello che sto per raccontarvi è uno degli episodi più divertenti e particolari che ricordo della stagione venatoria alla lepre dell’annata del 2016. Era una domenica, precisamente il 27 novembre. Mi trovavo all’isola d’Elba insieme a mio padre, ospite dall’amico Graziano Signorini, per un week-end di caccia alla lepre coi miei segugi italiani. Appena svegli, ci affacciammo sul balcone del villino dove alloggiavamo, con vista sul piccolo golfo che pareva un quadro, ed entrambi eravamo certi che la mattinata sarebbe stata ottima per i segugi: cielo limpido, aria frizzantina, una leggera brezza di mare ma che raramente non è presente sull’isola. Giunti sul luogo di sciolta, iniziò a soffiare un forte vento che non rese l’olfattazione ottimale. Rilevata la pastura in un piccolo campo, la muta iniziò l’accostamento alternando alla voce passaggi eseguiti solo col movimento del corpo. Dopo circa mezz’ora, Rina, la capomuta, marcò le doppie ed in pochi minuti la muta giunse allo scovo.
Il primo tratto di seguita fu svolto in maniera magistrale ed incalzante, ma dopo circa venti minuti un brutto fallo impedì il proseguimento della seguita, che da lì in avanti divenne un veloce rintraccio; ma ormai la fuggitiva aveva preso un bel vantaggio e fu vista attraversare una stradina. Recuperata la muta, decidemmo di spostarci di pochi chilometri, dove il giorno prima avevamo scovato una lepre che però non eravamo riusciti a prendere: quella lepre aveva un vizio, quello di partire prima dell’arrivo dei segugi. E la storia si ripeté: appena sciolti, i cani fecero capire che dopo i primi scagni il selvatico aveva già lasciato il covo, verso la direzione opposta rispetto a quella dove avevamo posizionato le poste. La seguita fu buona ma anche questa volta la lepre ebbe la meglio.
Erano circa le 11 e, abbastanza sconsolati, eravamo ormai convinti che quel giorno la lepre sarebbe rimasta in vita. Ma a caccia, come nella vita, la speranza è l’ultima a morire e così, su consiglio di Graziano, ci spostammo in una zona vicino a Capoliveri dove i vigneti dividevano il mare dalla roccia della collina. Il sole caldo aveva scaldato anche il terreno, eravamo arrivati quasi a 20 gradi, con un’escursione termica rispetto al mattino notevole. Sciogliemmo tre segugi: Fiamma, Diva e Zefiro, che ai primi due turni erano rimasti in macchina.
Sembrava che i cani da caccia sentissero meglio a fine giornata piuttosto che al mattino presto: in 10 minuti, con un accostamento ben vocalizzato e veloce, i tre segugi arrivarono al covo e un urlo risonò nella vallata. Io ero posizionata su una stradina sterrata al confine del vigneto: non feci in tempo a sentire lo scovo che già la lepre si affacciò da lontano. Attesi che arrivasse alla distanza utile, e quando fu a circa 50 metri si fermò un attimo, girò la testa per ascoltare i cani che si stavano avvicinando e face un angolo secco buttandosi nella macchia. Provai il tiro quando ormai non la vedevo più. Dopo pochi attimi arrivarono i segugi, in pochi secondi ripresero la seguita dal punto dello sparo e mentre seguivo con lo sguardo al direzione della seguita rividi la lepre lontana che cercava di attraversare una rete che divideva una casa dalla vigna dove era stata scovata. Iniziai a correre per aiutare i cani da seguita ad attraversare la rete, Fiamma, più alta, riuscì a saltarla, mentre Diva e Zefiri li aiutai alzando al rete. Nel frattempo due colpi di fucile, sparati da mio padre, sembravano aver posto fine a quella corsa. E invece no: la lepre, ferita, inizialmente per circa 5 minuti fece perdere le sue tracce (spesso infatti capita che, ferito, l’animale non venga più sentito bene dai cani), tanto che pensammo fosse già morta, ma in realtà si era solo accovacciata di nuovo nel punto di partenza e dopo il riscovo proseguì la seguita, che da lì divenne veramente emozionante. Dopo circa 20 minuti, i tre segugi avvicinarono moltissimo la lepre che, nel rientro al covo, fu presa da mio padre. Era circa l’una, e quella giornata era terminata con grandi emozioni.