Prima parte: monumenti in estinzione
Diceva Leonardo da Vinci che la sapienza è figlia dell’esperienza. Quando si parla di caccia, non tutti hanno la grazia di poterne vivere l’esperienza e, infatti, di sapienza a proposito di caccia non ce n’è molta. Sono lontani i tempi in cui quest’arte, unanimemente riconosciuta come nobile, meritava manuali che non solo indicassero come praticarla ma che ne incentivassero l’approccio. E sempre meno rimangono quegli anziani cacciatori a cui dire “raccontami com’era”, il cui discorso inizia quasi sempre con un “eh… non era mica facile come adesso”. Notatelo: non sai come reagire a quel “facile come adesso”: è vero i mezzi erano più spartani, improvvisati, spesso rozzi; ma sentirsi dire che la caccia è facile oggi, per chi la conosce, ha lo stesso effetto del rumore della fiancata di un’ auto di lusso che gratta contro un muro. Sembra questo, soprattutto ad un occhio ed un orecchio inesperto: che la caccia sia facile.
Che si identifichi tutto nell’atto ultimo, quello dello sparo, e che esso stesso sia qualcosa di banale, infallibile, alla portata di tutti. Che l’essere lì, in quel preciso momento, in quella situazione possa essere considerato alla stregua di pagare un giro, inserire il gettone, salire su una giostra ed essere certi che precipiterà in picchiata a farti provare il brivido che cerchi. Non si può sapere quanto sia difficile arrivare a provare quel brivido nella caccia. Quanta esperienza, fatica, delusioni, attese, costi quel brivido. E allora, se non troveremo manualetti contemporanei che ci indichino come si fa ad andare a caccia, è comunque giusto ogni tanto ripercorrere quella che è stata per ognuno di noi, nel corso degli anni, l’esperienza del cacciare, e come ci è stata trasmessa da chi la sapienza l’ha acquisita sulla terra, nell’aria e nell’acqua.
Antica quasi quanto l’uomo. “Quasi” perché nacque appena dopo, quando il difendersi dalle bestie feroci lasciò lo spazio al divenire cacciatore, giacché il nutrimento vegetale non bastava. Erano raccoglitori-cacciatori, lo furono per due milioni e mezzo di anni, e non esistevano tra di essi i vegetariani né tanto meno vegani: non ci voleva tanto per capire nemmeno allora che le proteine animali erano da preferirsi a quelle vegetali… l’evoluzione su questo argomento, a quanto pare, dev’essere avvenuta a ritroso per una fettina chiassosa di nichilisti che ci vorrebbero convincere che vivere senza carne sarebbe meglio! Per tornare alla nostra storia: le astuzie ed i mezzi non avevano più il solo fine di tenere lontani gli animali, ma di vincerli non fuggendo più ma cacciando, appunto. Sarebbe un’impresa lunghissima, seppur interessantissima, ripercorrere tutti quelli che furono i metodi che il cacciatore imparò a far fruttare, ma è giusto avvicinarsi ai nostri tempi, a cose che ancora abbiamo la fortuna di poter ammirare: pezzi di storia dimenticati, non solo dai profani, ma anche da tanti che si manifestano gran conoscitori della caccia.
Stiamo parlando dei “Roccoli” o “brescianelle” (a seconda della zona e di piccole differenze tecniche). Si tratta delle strutture di uccellagione (parola che allora non conosceva l’accezione negativa odierna) più complesse che l’uomo riuscì a sviluppare grazie allo studio della migrazione degli uccelli, del loro percorso attraverso le montagne e dei luoghi più adatti ove installare tali strutture, anche se non è ancora ben chiaro perché, a parità di caratteristiche, certi valichi e spartiacque fossero preferiti rispetto ad altri.
Il roccolo era costituito da uno o più tondi di piante (come il carpino, perfetto perché nella parte inferiore va a costituire una specie di colonnato, mentre nella superiore si espande in rami fittissimi); al centro del più alto di questi si ergeva una torretta, chiamata casotto, alta una decina di metri, completamente mimetizzata anch’essa da piante e vegetazione. Al piano terra della torretta venivano riposti in uno stanzone i richiami, mentre in quello superiore si trovava lo stanzino da cui l’uccellatore spiava l’avvicinarsi degli uccelli. Durante la cattura venivano ben nascosti, ed inseriti nei punti più strategici dei tondi o tra gli alberi da frutto che riempivano gli spazi tra di essi, i richiami. Mentre dentro le file di carpini, sempre doppie, venivano fissate le reti (che nei roccoli non superano i quattro metri, nelle brescianelle i tre).
Il metodo con cui gli uccelli si prendevano era semplicissimo: entravano nel tondo dove stava il roccolo attirati dai richiami ed appena stavano per posarsi sulle piante all’interno, l’uccellatore usciva sul ballatoio fischiando con la cosiddetta sordina e lanciando lo spauracchio, una sagoma di vimini (anticamente anche di cartone o stracci) che simulava il falco in picchiata. A quel punto gli uccelli, fuggendo bassi per cercare riparo tra le piante, si “imborsavano” nelle reti.
La brescianella non differisce di molto come struttura, ma cambia il momento della cattura, in quanto grazie ai grani sparsi sul terreno e l’uso di zimbelli e giochi, si aspettava che gli uccelli da catturare, si posassero dentro al tondo, e solo a quel punto, con un movimento rapidissimo, l’uccellatore attivava uno spauracchio più complesso rispetto al “falco” del roccolo: una corda faceva innalzare un filo di ferro che attraversava tutta la brescianella ed a cui erano attaccati degli stracci, delle ginestre e a volte anche dei campanacci da vacche. La difficoltà stava proprio nel non far vedere il movimento del fil di ferro prima di quello degli aggeggi attaccati! Ci si alzava alle quattro del mattino all’inizio della stagione, ed alle tre nel mese di ottobre, quando il freddo spingeva giù i tordi (i primi a passare) molto presto o, addirittura, nelle notti di plenilunio, facendoli passare tutta la notte.
Qualche roccolo oggi sopravvive solo per le catture, regolarmente controllate, ai fini di richiamo, e grazie all’impegno di pochi. Del resto la prima cosa che impari quando frequenti il corso per conseguire la licenza di caccia, è che “l’uccellagione è il reato più grave” e che quando questa si compie, il termine cacciatore va sostituito con bracconiere. Forse, all’ombra di questo pretesto, e grazie anche alla possibilità di accingere a mezzi comodi, accessibili ed alla portata di tutti, ci va bene non conoscere, continuare a confondere le due cose, dimenticando quanto densa sia stata nei secoli l’esperienza della caccia, quanti occhi sono stati levati verso il cielo, quanto farsi e disfarsi di terreno si sia consumato sotto le suole delle scarpe, quante volte sia stato soffiato dentro a due mani per scaldarle, quante albe siano sorte dietro schiene sempre più curve che risalivano una montagna . Quanto meriti di essere conosciuto e raccontato tutto questo. Se certo indietro non si può tornare, quando il valore di tutto ciò che ruotava attorno alla caccia era diverso, diverso al punto che addirittura, nel vicentino, molti roccoli prima dell’apertura venivano benedetti in processione dal Parroco, se certo sarà difficile tornare a cacciare con la dignità di quando le cose “non erano facili come adesso”, è anche certo, però, che quel momento, quello dello sparo, non è un momento: sono secoli. Non è, per nulla, acquistare un gettone.
di Eleonora Vignato e Mauro Riga – Foto di Gianpietro Corti
viva l’uccellagione,viva i roccoli e le tradizioni.