Ogni anno un ambito territoriale di caccia investe dalle 150 alle 300 mila euro per tali attività, piuttosto che impiegare lo stesso denaro per miglioramenti ambientali, sfalci, ripristino di zone umide, sostegno all’agricoltura tradizionale (anzi, ai sensi dell’art. 14 comma 14 l. 157/1992, «l’organo di gestione degli ambiti territoriali di caccia provvede, altresì, all’erogazione di contributi per il risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica e dall’esercizio dell’attività venatoria nonché alla erogazione di contributi per interventi, previamente concordati, ai fini della prevenzione dei danni medesimi»: anche questa disposizione ricade nella generale inattuazione della l. 157/1992, a causa della ingessatura determinata dai ben altri interessi perseguiti delle associazioni venatorie).
Tra questi habitat trasformati e nell’inerzia cagionata dalla l. 157/1992, avallata dalle province e regioni (raramente dotati di competenti uffici di gestione faunistico-venatoria) e strumentalizzata dal cancro parapolitico delle associazioni venatorie, il cinghiale si diletta, giacché la presenza di tante coltivi abbandonati, ridotti ad ampie superfici di vegetazione arbustiva e di macchia, favorisce la loro presenza anche in zone definibili “non vocate”, magari a ridosso di campi dove nutrirsi o di centri abitati dove scorrazzare.
Per giunta, sempre in ossequio alla l. 157/1992, il cinghiale, come se fosse un migratore, viene cacciato sulla base del carniere teorico e con un prelievo illimitato e giammai quali-quantitativo, all’interno di un periodo di massima che nulla corrisponde alla biologia della specie.
Le soluzioni dietro l’angolo, però, esistono e non possono non passare per l’abbattimento e ricostruzione della l. 157/1992, ormai non più rinviabile. E la riforma deve inesorabilmente contemplare che: a) tutto il prelievo venatorio venga strutturato su basi di sostenibilità, e quindi su parametri quali-quantitativi; b) al posto degli ambiti territoriali di caccia vengano costruite delle unità di gestione faunistico-venatorie di piccole dimensioni, cui legare il cacciatore, che va reso responsabilizzato per il proprio operato.
L’operazione legislativa, ovviamente, deve essere compiuta bypassando le associazioni venatorie, i cui obsoleti rappresentanti hanno dimostrato un’indefessa resilienza in nome del mantenimento dello status quo ante; e, pertanto, la riforma deve investire anche il ruolo, i poteri ed i compiti delle associazioni venatorie, in modo da ricondurle in una sfera unicamente privatistica d’interesse e di funzioni.
Frattanto, appare indispensabile l’urgente adozione di un regolamento-tipo nazionale sul prelievo venatorio degli ungulati. E, prima ancora, l’azzeramento degli ambiti territoriali di caccia – che, è evidente, perseguono obiettivi non compatibili nemmeno con la deprecabile l. 157/1992 – disponendo una sorta di commissariamento unico nazionale, deputato all’attuazione di compiti individuati ed unitari di priorità d’intervento nella gestione faunistico-venatoria.
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