E la Legge 157/1992 (il copia-incolla malfatto e con poche modifiche della l. 968/1977) è la norma che incornicia tale stato dell’arte, anzi, che dà forza di legge a siffatta scellerata caccia. Paradossalmente, il testo unico sulla caccia del 1939, che recava soltanto una fotografia normativa delle diverse realtà venatorie italiane, possedeva molti più spunti gestionali, rispetto alla caccia “popolare” che, voluta dalle associazioni venatorie, è percolata sin dal 1967. Nemmeno, la transizione della fauna selvatica, da res nullius a “patrimonio indisponibile dello Stato” ha migliorato qualcosa, dato che appartengono alla stessa categoria di beni pubblici anche le panchine, che vengono divelte, o i cestini dei rifiuti, bruciati.
La l. 157/1992 stabilisce un elenco di specie cacciabili, un periodo di massima di apertura della caccia per ciascuna specie, una serie di divieti per i modi ed i luoghi di caccia, nonché una serie di limitazioni nelle giornate e negli orari, affinché il prelievo, libero, in qualche modo risulti potenzialmente contenuto sulla base dell’effettivo rispetto di queste regole. Tale impostazione si chiama “carniere teorico”, nel senso che si calcola teoricamente il prelievo massimo che ciascun cacciatore, per ciascuna specie e con determinate limitazioni di tempo, luogo, ecc., potrebbe astrattamente riuscire a comporre.
Questo espediente può dirsi funzionante soltanto supponendo un elevato concetto della legalità da parte del cacciatore, nonché assumendo l’esistenza di capillari controlli di vigilanza venatoria. Purtroppo è ben nota la diversa realtà.
E dunque, per una caccia che ha legittimato una predazione illimitata (anzi, limitata soltanto dal calo numerico dei cacciatori e dell’elevata età media degli stessi), unitamente ad una trasformazione degli habitat e ad un loro detrimento (inquinamento, industrializzazione dell’attività agricole, abbandono delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali, consumo del suolo, cementificazione dei fiumi, ecc.), ecco scomparire la piccola selvaggina, stanziale o di passo, che costituiva la caccia “tradizionale” lungo lo stivale. E ciò nella totale inerzia degli “ambiti territoriali di caccia” che, a dire della l. 157/1992 (per aggiornamento della l. 968/1977 alla c.d. direttiva “Uccelli” del 1979), avrebbero l’obbligo di provvedere al mantenimento ed al ripristino degli habitat naturali favorevoli alla riproduzione della fauna selvatica. Gli ambiti territoriali di caccia sono, inutile sottolinearlo, unicamente degli enti pubblici lottizzati dalle associazioni venatorie e preposti al cronico e insostenibile sperpero di denaro pubblico per i costosissimi “lanci di selvaggina”.