La caccia è un’attività che prevede uno strettissimo contatto con la natura, o meglio, richiede una simbiosi viscerale con i ritmi e i fenomeni naturali. La caccia non può infatti prescindere dall’ambiente naturale e dalle risorse di un patrimonio faunistico che tutti quanti dobbiamo impegnarci a rispettare e che la caccia, vivendola attivamente, ci insegna a tutelare e difendere. La caccia oggi non è più prelievo indiscriminato, non è più un’esigenza alimentare, ma passione e sport. Nelle popolazioni primitive la caccia serviva sì a migliorare e variare l’alimentazione, ma rappresentava anche un momento di collaborazione sociale anche fra gruppi diversi, occasione per costruire il linguaggio, per stabilire i ruoli e le gerarchie che poi verranno trasferite all’interno del clan. Tuttavia la caccia è un’attività dinamica che cambia mentalità e presupposti in base alla cultura in cui si sviluppata e in cui viene praticata. I più recenti studi antropologici e storici sulla caccia ci offrono una lucida interpretazione delle due posizioni contrapposte che ancora dividono l’universo venatorio: una di matrice romano-giudaico-cristiana che fonda le città, coltiva la terra, e cerca, anche con le armi, nuovi mercati.
L’altra, nordico-pagana, che vaga nel suo elemento, la selva, alla ricerca di nuovi territori di caccia e che talvolta vi si insedia dedicandosi a colture di mera sopravvivenza.
Sono due atteggiamenti a confronto: da una parte, edonismo e dissipazione, ma anche la pretesa di mettere ordine nella selva, di trasformarla in un giardino popolato da animali domestici e di quelle specie opportuniste dell’uomo che vivono senza produrre danni apprezzabili intorno al campo coltivato; dall’altra parte, sacralità e rispetto della selva, delle sue magie e dei suoi abitanti, ma anche sfruttamento razionale delle potenzialità produttive della fauna selvatica.
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Ma essere cacciatori oggi, all’inizio del terzo millennio cosa significa? Se da un lato si parla di aggregazione sociale, dall’altra si può parlare di coscienza del territorio. Infatti ciò cha ha cambiato il mondo venatorio durante il ‘900 lo si può ricondurre a tre fenomeni: l’esodo rurale, l’industrializzazione e l’urbanizzazione. Caccia e territorio non hanno potuto far altro che segnare il passo di fronte a questa tendenza finché, un secolo dopo, grazie all’approvazione della legge quadro che regola l’attività venatoria (la 157/92) il cacciatore grazie ad Atc e Ca é legato al suo territorio e dunque invitato a proteggerlo e a migliorarlo. La natura ha bisogno della caccia e non può sussistere l’arte venatoria senza una gestione concordata con il mondo agricolo e responsabile nei confronti dell’ambiente da rispettare. Ma prima di arrivare a questo traguardo è importante condividere il fatto che l’Italia non sia un territorio mummificato ma una territorio animato e che il cacciatore non debba limitarsi ad osservare il territorio come potrebbe farlo un escursionista, ma deve poter avere la libertà di agire nel rispetto e nell’ottica della tutela. Il cacciatore diviene il primo vero ambientalista nella società odierna. Pensiamo ai danni provocati dal fondamentalismo ambientalista, che ha vietato per anni la caccia nelle aree protette, causando, secondo le ultime stime riferite da Sergio Marini, rappresentante delle istanze di allevatori e agricoltori, circa 70 milioni di euro di danni ogni anno, sottolineando che ad oggi il rimborso arriva mediamente a coprire il 30/40 per cento del totale denunciato. Il presidente Vincenzo Pepe durante la trasmissione “Uno Mattina” ha ribadito l’importanza della selezione all’interno delle aree protette per le specie problematiche come i cinghiali che minacciano altre specie e deturpano il patrimonio ambientale. “Se non si agisce si va contro i principi di conservazione propri di un Parco naturale”. “Il problema, afferma il professore Pepe, è che i censimenti in molte aree protette non vengono nemmeno fatti perché nell’immaginario comune resiste l’ambientalismo di vincoli e il no a priori alla caccia. Quando gli animali in eccesso alterano l’ecosistema bisogna intervenire. Il no alla caccia produce un ulteriore danno all’ecosistema”. L’attività venatoria rappresenta un importante strumento di monitoraggio e mantenimento di equilibrio tra le specie. Non solo! All’estero la caccia è anche un’alternativa all’agricoltura per attribuire un valore economico al territorio. In Scozia, ad esempio, la voce “caccia” è inserita nel bilancio nazionale. Un altro esempio di aiuto allo sviluppo rappresentato dalla caccia sono i Paesi dell’Est dove, a fronte di un cospicuo investimento di denaro destinato alla sistemazione delle stazioni della forestale ridotte a ruderi e alla garanzia di posti di lavoro, nonché alla creazione di un indotto derivato dalla caccia, i Governi locali hanno dato in gestione per un numero limitato di anni l’attività venatoria con l’imperativo di osservare i calendari, per tempi e specie locali. Diventa necessario iniziare a guardare all’attività venatoria secondo una prospettiva di tipo europeo in cui le venga riattribuito il giusto valore secondo le leggi emanate dalla Commissione Europea. Concludo affermando che il mondo della caccia dovrebbe iniziare a pensare di occuparsi anche dell’educazione ambientale, oltre che dell’ educazione alla caccia, e che siano maggiormente i giovani ad essere coinvolti.
Fonte: Opinione.it