Il botta e risposta tra mondo della caccia e “Avvenire”, il quotidiano dei vescovi italiani, continua. La cabina di regia del mondo venatorio ha inviato al direttore del giornale, Marco Tarquinio, la seguente lettera: “Le scriviamo in riferimento all’articolo di Maurizio Fiasco, pubblicato venerdì 29 marzo 2019 sul suo giornale e dedicato al tema della legittima difesa. Come Cabina di regia del mondo venatorio, in rappresentanza di oltre 600mila cacciatori, lontani dal voler valutare o giudicare le vostre opinioni e la vostra linea editoriale in merito a tali temi, ci teniamo però a evidenziare sia la gravità dei toni usati che le inesattezze contenute nell’articolo stesso. Non può considerarsi accettabile l’affermazione canzonatoria «cacciatori ebbri di grappa già all’alba, ingerita per contrastare il freddo delle nebbie silvane».
Ma quel che ci preme è la chiarezza sugli incidenti di caccia che sono stati strumentalizzati, usando i dati dell’Associazione vittime della caccia, più volte smentiti e confutati nel corso degli anni perché quasi sempre “gonfiati” con casi che nulla hanno a che vedere con l’attività venatoria. Per chiarezza, trasmettiamo in allegato il comunicato che abbiamo diramato alla chiusura della stagione venatoria appena terminata. Sono 12 i decessi accertati durante la stagione 2018-19 (dal 1° settembre 2018 al 30 gennaio 2019), con una diminuzione del 33% rispetto a quella precedente. Gli incidenti mortali che hanno coinvolto i cacciatori sono stati 10 (83% del totale), mentre quelli che hanno coinvolto i non cacciatori sono stati 2 (17% del totale). Durante lo stesso arco temporale i feriti sono stati 50, con un calo del 17% rispetto al 2017-18.
I ferimenti dell’ultima stagione hanno coinvolto per il 74% dei casi cacciatori (37 feriti) e per il rimanente 26% dei casi non cacciatori (13 feriti). Anche un solo decesso durante la caccia rimane inaccettabile, siamo i primi a dirlo, ma forse è bene ricordare che qualsiasi attività umana, anche quella apparentemente più sicura, comporta una percentuale di rischio che può essere abbassata, ma non eliminata del tutto. La caccia coinvolge migliaia e migliaia di donne e uomini impegnati nelle campagne, nella gestione diretta di governo della fauna, nel controllo delle aree protette, nella vigilanza antibracconaggio. Una presenza costante e attenta sul territorio che nessuna forza di polizia o altre forme di volontariato possono nemmeno lontanamente pensare di eguagliare. Ringraziandola per l’attenzione porgiamo cordiali saluti”.
La risposta di Avvenire non si è fatta attendere: “Apprezzo il tono della vostra replica e proprio per questo vorrei subito sottolineare un punto cruciale: avete interpretato il parallelismo tra i casi di uccisione per furto o rapina e quelli dovuti a fatali errori nel tiro al bersaglio dei cacciatori, come una polemica contro l’arte venatoria. Vorrei consigliare di rileggere con cura il mio articolo, scusandomi se il tono leggero di un inciso ha ferito la sensibilità delle persone corrette e assennate, per cogliere che la critica muoveva, invece, alla manipolazione dell’allarme sociale, di là dei numeri. Certamente si possono rilevare dei corollari, come per esempio l’opportunità – e so bene che da più parti si parla di urgenza – di maggiori controlli sul campo di caccia, da parte delle Forze dell’ordine specializzate. Magari anche con l’alcoltest, finora riservato agli automobilisti, nei controlli casuali lungo le strade. Do volentieri atto, comunque, della recente diminuzione del numero degli incidenti (che peraltro l’Associazione delle vittime della caccia, da me citata, fa bene a annotare con cura quando compaiono alle cronache), in linea con la generale contrazione della violenza in Italia (meno 75 per cento dagli anni Novanta a oggi).
Ma, insisto, il focus del mio articolo verteva sulle nefaste conseguenze del “doppio messaggio” del legislatore in tema di sicurezza: il primato dello Stato oscurato dalla sollecitazione alla risposta privata «sempre legittima». Dandovi di nuovo atto della misura con cui vi siete rivolti al Direttore di “Avvenire” (che mi ha invitato a rispondere), devo aggiungere un’altra considerazione: i commenti ospitati da una testata online di cacciatori – con parole irripetibili all’indirizzo mio e del quotidiano col quale collaboro – sono tuttavia inquietanti. I detentori a qualunque titolo di micidiali armi da fuoco, doppiette comprese, risultano infatti tra i destinatari naturali del metamessaggio di chi ha voluto la nuova norma sulla “legittima difesa” e ha messo in circolazione l’idea che d’ora in poi non ci si debba più curare di valutare la proporzionalità tra il pericolo – l’offesa reale o potenziale – e il modo di difendersi. Per questo dico che l’incredibile aggressività che ho riscontrato in quei messaggi, così lontana dai vostri toni e dalle vostre argomentazioni, fa davvero paura: anche quelle persone (immagino) hanno la licenza di girare armate.
Verrebbe da segnalare a chi di dovere i nominativi degli intemperanti per la verifica dei requisiti di equilibrio psichico. La legge lo prescrive come assoluto, ed è quel che l’autorità di pubblica sicurezza deve valutare prima di rilasciare la licenza di porto d’arma. Tanto per sport quanto per difesa personale. Aggiungo due brevi considerazioni, pur partendo a mia volta sia dall’equivoco di fondo sia dalla giusta misura che caratterizzano la replica delle associazioni venatorie e che è già stato ben sottolineato dal professor Fiasco. 1) Per affermare le proprie ragioni non si può e non si deve tentare mai di delegittimare altre voci: l’Associazione delle vittime della caccia non è composta da fantasmi e visionari. 2) Le difese da trivio e quelle minacciose (quelle più gravi, poi, rimosse) dei soliti «leoni da tastiera», stavolta però anche con la doppietta, sono state eccitate anche da chi ha trasformato un parallelismo in una questione da affrontare col parabellum di una polemica frontale che non c’era mai stata da parte nostra. È una scelta libera, ma pericolosa. Meglio esserne consapevoli”.