Cronaca di una giornata di caccia alla regina dal lungo becco, e due o tre note in calce, per chi ha la fortuna di essere ancora all’inizio del cammino…
Testo di Mario Sapia
Una beccaccia invernale, un dono ricercato eppure inatteso, la prima cosa bella per una giovane promessa.
In una mattinata dall’abito invernale, raggiungiamo una zona adagiata fra i monti ad ovest della Valdichiana aretina e le prime propaggini orientali della Valdarbia, nel meraviglioso territorio senese. Terre splendide o terribili, prodighe o avare a seconda dell’atteggiamento con cui si affrontano, ma in ogni caso territori vari, che presentano riuniti insieme tutti le essenze paesaggistiche più tipicamente toscane.
Antea, con un largo collarone rosso armato di bubbolo, inizia a battere il sottobosco gelato di un querceto, seguita a ruota dai due cuccioloni, che di tanto in tanto si concedono aperture di propria iniziativa, piccole esplorazioni curiose e velocissimi inseguimenti di merli terrorizzati.
Seguendo la cagna, scendiamo fino alla base del bosco, dove questo si allarga maggiormente e anche il grado di pendenza incomincia a diminuire, e osserviamo come l’andatura di Antea rallenti quasi a passo di trotto, allungando potenti nasate verso questo o quel cespuglio, talvolta emulato da una o l’altra delle nipoti. Il freddo è pungente, come impone la prima ghiacciata della stagione, e il silenzio del bosco sembra ancora più ovattato e amplificato dai nostri passi scricchiolanti sul fogliame raggelato al suolo. Il bubbolo è una nota stonata nell’armonia naturale di suoni e rumori, e tuttavia è una «spina» che dobbiamo sopportare: non potremmo permetterci il lusso di tardare più del giusto nell’individuare l’eventuale ferma, considerando la presenza dei due giovani Bingo ed Elis, i cui otto mesi di vita non consentono illusioni di affidabilità. Per loro, la giornata ha preso l’avvio di un’allegra scampagnata, anche se non può sfuggire la naturalezza con la quale stanno affrontando la gravosa prova boschiva.
Il querceto finisce, aprendosi in un campo aperto, brinato e discendente verso un corso d’acqua fittamente presidiato da piante d’alto fusto e scope. Bingo è il primo ad arrivarci, iniziando a frugare e a lanciarsi in lunghe corse parallele al borro, presto imitato dalla velocissima sorellina. Antea però, mostra un percettibile mutamento di atteggio: la cagna accorcia il passo contraendone la falcata come fa un cavallo che vuol galoppare, ma lo spazio è ridotto; rallenta, porta l’andatura quasi al passo ed alza verso il cielo il tartufo per captare qualcosa che, indubitabilmente, l’ha messa sul chi vive, ma che ancora deve presentarsi sotto la forma di un’entità vaga e lontana. I cuccioli sopraggiungono da dietro, di ritorno da chissà quale diavoleria, ma l’importante è che si stiano appassionando sempre di più ad un contesto con cui prima o dopo avrebbero dovuto fare i conti. La cagna adulta avanza ancora una cinquantina di metri, fila e ferma solidamente. Bingo entra in un consenso espressivo, mentre Elis, incurante, va a finire la sua corsa proprio davanti al naso della madre in ferma fra un gruppo di pioppi, a due metri dall’argine. Deglutisco un grumo di saliva in preda al panico: a quella distanza non possiamo riparare ad un eventuale sfrullo. Corriamo trafelati, Antea rompe la ferma e si produce in una specie di «filata a posteriori », diversa come atteggiamento dalla guidata. La conosco, e capisco più o meno quello che sta succedendo: ha trovato una fatta ancora abbastanza calda che ha catturato, anche se per poco, il suo olfatto. I giovani annusano quella che per loro era una strana sostanza bianca con un punto scuro in mezzo, mentre la loro madre riprende a cacciare, incrociando i cespugli a passetti.
Dopo qualche minuto, Antea rallenta, fila con prudenza, osservata dai suoi figli finalmente un po’ compresi negli avvenimenti, quindi ferma puntando il naso verso la base di un pioppo solitario fra le scopaglie. Ci avviciniamo col cuore che batte in petto come il Big Ben, e quando siamo a pochi passi dalla scena del dramma, mentre Bingo entra in consenso, sua sorella fa due balzi in avanti con le potentissime leve di cui la natura l’ha dotata e va maldestramente a cozzare la spalla della madre. Un sonoro scoppiettio precede la sagoma di una reginetta scura; la vediamo, le tiriamo e la padelliamo senza pietà. La beccaccia vola dritta lungo il fiume e poi repentinamente svirgola con il classico «sette», ributtandosi dall’altra parte del corso d’acqua. Avvampati dalla rabbia e spinti da una ingiustificata indignazione, poiché noi e solo noi eravamo artefici della sfortuna nostra, ci lanciamo alla ribattuta come Brancaleone alle Crociate. Reperiamo un punto guadabile e attraversiamo. Ma non è come dall’altra parte. Questo lato del piccolo fiume è infoltito da scope e cespugli che non accennano ad aprirsi, bensì casomai a chiudersi man mano che si procede verso la collina boscosa che lo sovrasta.
Adesso è difficile seguire i cani con lo sguardo, e solo il campano ci consente di avere un’idea di dove Antea si potesse trovare. I due cuccioloni appaiono e scompaioni dal folto come folletti, e di tanto in tanto vengono a trovarci per esigere il tributo di una carezza incoraggiante. Quasi improvvisamente ci ritroviamo in un posto che appare diverso dalla zona circostante. Piante meno fitte, piazzole pulite e camminamenti abbastanza prolungati ci rendono la vita meno amara, come recitava una celebre pubblicità negli oramai lontani anni ottanta, e rivediamo Antea quasi al passo fra le scope che annusa l’aria da sopra lo sporco sfruttando la sua grande taglia e la lunghezza del collo a mò di periscopio. Andiamo avanti così per almeno un quarto d’ora senza spostarci più di tanto dalla zona, fino a quando Antea ferma di nuovo. Con un occhio incollato sulla cagna, mi posiziono due passi in avanti, ma devo attendere solo pochi secondi: il frullo a colonna, la mancanza di ramaglie e i buoni uffici della mia «lupara calabrese», mi permettono di abbatterla piuttosto facilmente. I cuccioli, mesmerizzati entrambi in un consenso, si lanciano dietro alla mamma sulla caduta, e proprio Bingo arriva per primo ad avvistare lo sconosciuto ed esanime uccello sotto chissà quale piede di cespuglio. Lo prende fra i denti, lo smozzica, se lo contende con le due femmine e dopo qualche giro fra le scope mi si avvicina, più per ricevere un complimento che per consegnarmelo davvero. È la sua prima preda abboccata; la prima cosa bella che gli sia capitata. E speriamo sia soltanto l’inizio.
Alcune note ad uso di quei cacciatori privi di tradizioni familiari beccacciaie
La beccaccia è un selvatico alquanto misterioso, e pur essendoci ormai alcuni aspetti delle sue abitudini che fanno pienamente parte del nostro patrimonio di conoscenze scientifiche, un certo numero di cacciatori ancora non ne possiede un quadro sufficientemente chiaro da permetter loro di perseguirla con cognizione di causa. Mi riferisco soprattutto a quelli giovani o a quelli senza tradizione venatoria di famiglia, ovvero senza un papà, un nonno o uno zio cacciatore. Approfittiamone allora per stilare due note che potrebbero risultare utili proprio agli amici che rientrano in questi gruppi, per comprendere la dinamica di un resoconto o impostare consapevolmente una battuta.
La beccaccia è un’animale notturno, ovvero un uccello la cui principale attività si svolge durante la notte. Al calar delle tenebre, la beccaccia lascia la sicurezza della sua rimessa diurna che di solito è dislocata in zone di bosco, per andare a mangiare funghi o vermi sui campi aperti o pascolare sulla riva di fiumi, laghetti o acquitrini alla ricerca di piccoli invertebrati, che attira in superficie dopo aver raspato il suolo con le zampe. Dopo aver soddisfatto questa necessità rientra nei suoi boschi, atterrando esattamente nel punto da dove era partita la sera prima. Ritornata a «casa», si libera delle deiezioni e si sposta nelle vicinanze per trovare un posto nuovo in cui riposare. Questo vuol dire che se ci si trova davanti ad una fatta di beccaccia, l’animale può essere piuttosto vicino. Meglio ancora se le fatte sono più d’una, perché ciò vuol dire che il luogo è giudicato molto accogliente e dunque frequentato in maniera sistematica. La fatta della beccaccia la conoscono tutti, ma gioverà ricordarla brevemente. È una specie di macchia bianca con al centro una sorta di nucleo scuro, a volte di forma ovale. Questa fatta è lucente e molto fluida quando è fresca, mentre diventa sempre più opaca e dura man mano che diventa vecchia di qualche giorno. Dunque, la prima cosa da fare se se ne incontra una, è cercare di determinare questo grado di freschezza con la migliore approssimazione possibile.
Dopo averlo fatto, è opportuno dare un’occhiata tutt’intorno e fare un piccolo gioco che può anche risultare divertente e che consiste nel cercare di immedesimarsi nella beccaccia e provare ad indovinare dove può essere andata. Per farlo al meglio è di cardinale utilità tenere in considerazione la presenza di corsi d’acqua o di particolari essenze arboree che dalla nostra regina, per molteplici ragioni alcune delle quali misteriose, sono considerate ricetto preferenziale. In base alla mia personale esperienza, una scala orientativa di preferenze potrebbe essere questa: tutte le formazioni in cui abbondano gli agrifogli, quindi i querceti, i faggeti, gli scopeti, i noccioleti, i castagneti, e solo in ultima istanza le pinete e le abetaie. Poi, naturalmente, è necessario tenere sempre presente che le beccacce pare che prediligano i terreni che l’anno precedente sono stati bruciati, ed è pleonastico aggiungere che il godere dei servigi di un buon cane che detiene una minima conoscenza del territorio, sarà vincente nel momento in cui ci si imbatte nella fatta, perché il nostro amico saprà senza meno dove andare e dove condurre il cacciatore con un grado di precisione a volte inusitato. Dunque, ricordate queste tre o quattro linee essenziali, analizziamo la cronaca che ha descritto una giornata di caccia alla beccaccia assolutamente normale e senza nulla di eclatante, soprattutto ai fini del carniere, e prendiamo spunto da questa per proporre alcuni elementi tecnici che voglio mettere in evidenza a beneficio dei neofiti che spesso leggendo gli articoli molto specialistici devono andare per deduzioni, congetture, rebus ed esclusioni varie.
Quando ero ragazzino e leggevo «Diana» per le prime volte, avrei voluto anch’io che dopo la narrazione di una cacciata, l’estensore dell’articolo avesse poi sottolineato a parte gli elementi di tecnica venatoria e cinofila che caratterizzavano la situazione, da me avidamente ricercati. Bene. Il primo dato che va evinto dalla cronaca è che l’incontro è avvenuto sugli argini di un torrente di fondovalle e non in un promettentissimo bosco di querce, obiettivamente un ricetto molto più adatto per una beccaccia. Il motivo è semplice: quando ci sono giornate molto fredde, a loro volta seguenti una nottata ghiacciata, il terreno per forza di cose tende ad indurirsi. Questo indurimento però, presenta un grado molto inferiore laddove l’acqua non può scivolare via subito per effetto della naturale percolazione, come appunto i fondovalle, soprattutto in presenza di corsi d’acqua che imbibiscono e rendono più morbido e penetrabile il terreno, e dunque più ricco di funghi e vermi. Nelle fredde giornate invernali quindi, o alle prime brinate di tardo autunno, può risultare strategicamente propizio abbandonare le «quote alte» per dirigersi proprio verso zone solo apparentemente meno vocate, tenendo presente i compluvi, i fossi, i borri, e tutte le presenze d’acqua soprattutto nell’ambito boschivo. Il secondo elemento tecnico evincibile dalla narrazione che ho fatto, è costituito dalla rimessa della beccaccia.
La beccolunga ha compiuto il classico «sette», cosa che non è detto faccia sistematicamente, e si è andata a rimettere in una zona all’apparenza abbastanza fitta. In realtà, l’esperienza della cagna ci ha indotto a considerare solo un certo posto della vasta boscaglia di scope, ovvero quello in cui era visibile la presenza di aree più larghe, di camminatoi, di mulattiere quasi.
Questo perché la beccaccia quando atterra ha sempre necessità di godere di una specie di pista d’atterraggio abbastanza pulita, e sarà molto difficile che vada a ficcarsi in un ginepraio in cui non passerebbe un gatto. Teniamolo a mente, perché è vero, possono esserci le eccezioni, ma la regola generale è sempre e solo questa. Gli altri due dati sono di ordine cinotecnico. Il primo riguarda la taglia del cane da beccacce, su cui ogni tanto capita di orecchiare pregiudizi e preconcetti. Ebbene, per incarnierare la beccaccia bisogna poterle sparare, e per farlo è necessario andare dove vanno i cani.
Per controprova deduttiva, se ci passa un uomo ci passa qualsiasi cane e se l’uomo non passa, è perfettamente inutile che passi il cane da solo. Anche per sfondare una barriera vegetale in fase di cerca, il cane troverà sempre un modo per passare attraverso un ostacolo: dunque scegliamo pure la razza che ci piace di più, e dimentichiamo i centimetri. Il secondo spunto riguarda l’educazione del cane. Pensiamo a quando la Elis ha causato lo sfrullo, non tenendo nessun conto né della madre in ferma né delle immancabili sollecitazioni olfattive aleggianti davanti al suo naso.
Se avessi preso la cagnina dalla collottola e l’avessi scrollata sgridandola, la volta successiva che l’odore di una beccaccia avesse incrociato le sue narici, la piccola avrebbe cambiato direzione fuggendo come un razzo da quell’usta perfida, foriera di disgrazia e terrore. La caccia alla beccaccia non è nulla di misterioso, né, men che meno, di misterico. Basta solo applicare il buon senso e avere voglia di collaborare con il cane, di entrare in comunicazione con la natura, e naturalmente di faticare un po’, ma con la certezza di essere sulla strada giusta.