Come ricordato da Federcaccia Piemonte, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 7/2019 pubblicata in data 17 gennaio u.s., ha ‘salvato’ le disposizioni legislative regionali che hanno vietato la caccia alla pernice bianca, alla lepre variabile, all’allodola e ad alcune specie di anatidi. La Corte Costituzionale ha valorizzato un proprio risalente orientamento che ammetteva la facoltà delle leggi regionali di ampliare la tutela ambientale rispetto allo standard minimo stabilito dalle leggi statali nonché “la particolare sensibilità della comunità regionale piemontese al valore costituzionale dell’ambiente e dell’ecosistema … in conformità ad una specifica tradizione attenta al mantenimento degli esistenti equilibri ecologici” risultante dalle precedenti leggi comportanti, in parte, il suddetto divieto e dalle iniziative referendarie che hanno interessato fino dal 1987 la legislazione piemontese sulla caccia.
Posto che il giudizio della Corte è circoscritto alle questioni sollevate dal giudice di merito – nel particolare caso dal TAR Piemonte -, è da tenere presente che, per non ‘ammainare la bandiera’, il divieto già contestato può essere ulteriormente contestato davanti al TAR e quindi davanti alla stessa Corte con nuovi ‘motivi’ di illegittimità costituzionale. Questi possono essere proposti e, in parte, già lo sono stati nei due giudizi sui ricorsi relativi ai calendari venatori 2017/2018 e 2018/2019. Oltre al rilievo che nella “tradizione” della Regione Piemonte non rientra il divieto di caccia a due specie dell’avifauna alpina (pernice bianca e lepre variabile) – e significativamente il ricorso al TAR concernente il calendario venatorio 2016/2017 è stato proposto, oltre che dalla Federcaccia, da diversi Comprensori Alpini piemontesi, – la pronuncia non affronta due questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza di rimessione del TAR Piemonte.
La prima questione è l’assenza di un’adeguata istruttoria tecnica per un provvedimento che incide sulla materia ambientale in contrasto con la normativa europea. Tale questione è stata dichiarata non infondata, ma inammissibile perché l’ordinanza del TAR l’avrebbe proposta in termini generici. La seconda questione concerne la forma dell’intervento regionale limitativo della caccia ad alcune specie e, precisamente, la configurazione di questo come atto amministrativo – quale è il calendario venatorio – ovvero come atto legislativo – quali sono le disposizioni delle leggi regionali impugnate -.
La Corte non affronta direttamente quest’ultima questione e circoscrive la portata di una sua precedente sentenza (n. 20 del 2012) alla necessaria caratterizzazione come atto amministrativo del solo calendario venatorio, mentre tale sentenza, in coerenza con altre pronunce, valorizza la maggiore idoneità dell’atto amministrativo rispetto all’atto legislativo per la regolazione di una realtà tecnica e mutevole come il prelievo faunistico e attribuisce allo Stato il potere di delimitare forma e spazi dell’intervento regionale nella materia ambientale e, in generale, nelle materie riservate alla sua potestà legislativa. Nella prospettiva resta sempre il problema di fondo se la limitazione dell’attività venatoria costituisca un’elevazione del livello di tutela dell’ambiente.