La mia modesta e non certo offensiva richiesta al sindaco di Portoferraio di ripensare, in termini socialmente (e scientificamente) più equi la sua ordinanza inibitoria delle gare cinofile sul proprio territorio a causa della pandemia di peste suina africana, ha scatenato la reazione del presidente dell’ATC 10 dell’Arcipelago toscano che ha lodato il provvedimento definendolo “…improntato alla prudenza alla luce delle linee guida, in tema di prevenzione della diffusione del virus, pubblicate sia dal Ministero della Salute, da ISPRA e dagli Istituti Zooprofilattici delle varie ASL e non certamente teso a “punire” questa o quella associazione venatoria/cinofila vietando le rispettive attività agonistiche”.
Evidentemente, l’esponente di Federcaccia che guida l’ATC non ha letto attentamente il mio intervento nel quale non lamentavo assolutamente un atteggiamento “punitivo” nei confronti di questa o quella associazione venatoria, come dice lui, ma proprio l’immotivata severità “a senso unico” nei confronti dei cinofili sportivi in genere. Una severità che lo stesso signor sindaco motivava onestamente con la necessità di “…evitare la disposizione di divieti di frequentazione di boschi e sentieri, a piedi o con mezzi a pedali e, nel complesso, di tutte le attività ricreative che si effettuano al di fuori dei centri abitati…”. Il presidente dell’ATC, invece, ritiene inappropriato l’aver definito demagogica l’ordinanza sindacale e dopo aver preso atto del malcontento che può essersi creato tra le associazioni cinofile, sottolinea che “…siamo di fronte ad una tutela di un interesse superiore generalizzato in campo venatorio e non solo.
E’ ben noto che la fonte di veicolo del contagio può essere anche il cane da seguita su cinghiale e stante il fatto che a certi tipi di competizioni possono partecipare anche cani con relativi conduttori provenienti dalle zone già colpite dalla pandemia o già semplici frequentatori delle medesime, non c’è garanzia che non “approdi” all’Elba un cane partecipante alla gara cinofila su cinghiale il quale, del tutto inconsapevolmente da parte del suo proprietario/conduttore, sia un cane che è stato a contatto con il virus e pertanto potenziale veicolo di trasmissione della malattia”. Ecco, proprio qui sta il punto che evidentemente è sfuggito al presidente dell’ATC: se è vero, come è vero, che un cane da gara potrebbe contagiare il territorio isolano, è altrettanto vero che lo sesso potrebbero benissimo fare i cani dei turisti o le ruote dei biker, o le scarpe da trekking di un qualsiasi escursionista.
Comprendo perfettamente che un certo tipo di turismo in un’isola a vocazione fortemente turistica sarebbe un’operazione traumatica e impopolare, ma ciò non toglie che vietare “solo” la frequentazione dei cinofili sportivi, possa apparire sicuramente punitivo e altrettanto sicuramente demagogico. Se l’ordinanza sindacale fosse stata dettata solamente da una lodevole prudenza, allora sarebbe stato legittimo e comprensibile inserire anche tutta una serie di altre attività e non solo la cinofilia sportiva. Questa, che piaccia o non piaccia al presidente dell’ATC, è la verità, e questo è ciò che intendevo far presente con il mio intervento.
Piuttosto, quello che stupisce e appare davvero incredibile è proprio lo strano atteggiamento di un alto dirigente venatorio che, invece di difendere la categoria alla quale appartiene, difende a spada tratta un provvedimento sicuramente “monco” e altrettanto sicuramente “punitivo” nei confronti di tutti – e sottolineo tutti – i cinofili sportivi, indipendentemente dall’associazione di appartenenza. E, infine, stupisce che l’Associazione venatoria del presidente dell’ATC non prenda le distanze da una simile inspiegabile levata di scudi che molti cacciatori e cinofili faranno fatica a comprendere. A meno che questa non sia una posizione condivisa anche a livello nazionale (fonte: ANLC).