Concorso letterario #ObiettivoCacciaPassione – Nessuno diventa cattivo tutt’a un tratto, dicono. Pare che il famoso Al Capone cominciasse la sua carriera criminale alla tenera età di quattro anni rubando idranti nei giardini. E le palline di carta masticata che John Dillinger lanciava contro i suoi compagni della prima elementare erano i simbolici precursori dei proiettili di piombo che più tardi avrebbe esploso contro i poliziotti. Semplici sono gli inizi e svariate le circostanze che conducono un individuo giù per la strada sempre più larga dell’illegalità. E molto semplice fu il primo passo che io feci su quella china pericolosa. Quando compii dodici anni, mio zio mi regalò un fucile Beretta cal .22 a canna unica e mi insegnò a usarlo. Per quasi un anno non mi venne mai in mente di sparare altrove che in un campo di tiro, nella mia città natale di Forlì, in Romagna, e mai contro niente di più animato che un barattolo o un bersaglio di cartone. Poi una mattina d’estate capitò l’occasione fatale. Nel nostro giardino c’era un’aiuola di fragole. Le avevamo piantate in primavera e con no- stra gran gioia cominciavano a produrre abbastanza frutti da rendere più interessante la colazione del mattino. Ma un brutto giorno una famiglia di tordi vagabondi avvistò le rosse fragole e cominciò a saccheggiarle senza riguardo. Pensai di rizzare uno spaventapasseri, ma la piantagione di fragole era così piccola, che l’idea mi parve poco pratica. E invece escogitai un piano, che dapprima suscitò in me qualche scrupolo di coscienza. Sarebbe stato così semplice socchiudere di pochi centimetri la finestra del pianterreno, appoggiare il fucile sul davanzale e prendere di mira l’aiuola delle fragole … Quei tordi erano dei ladri sfacciati: bisognava dar loro una buona lezione. Così cominciai a premere il grilletto e la famiglia dei predoni diminuì di un membro a ogni sparo. Peccato veniale, il mio? Forse. Ma preludeva a una serie di avvenimenti. Per un breve periodo il mio .22 giacque in riposo, coprendosi di polvere. Poi un giorno osservai un piccolo animale marrone che sistematicamente si apriva la strada a furia di beccate nella nostra lattuga. Guardai meglio. Era una quaglia! Ma, per quanto mi concerneva, avrebbe anche potuto essere un cervo con un magnifico paio di corna da trofeo. Tirai fuori il buon vecchio .22, e la piccola quaglia femmina rotolò a gambe all’aria.
Poi venne l’inverno con la neve alta. Gli uccelli selvatici morivano a centinaia. Un pomerig- gio sul tardi, nell’ora in cui gli alberi spogli gettavano lunghe ombre azzurre, sulla candida neve farinosa, stavo sgattaiolando lungo il letto asciutto di un torrente. Poichè nessun guardiacaccia era in vista, a un certo punto ne uscii e, arrancando nella neve alta, mi inerpicai su una piccola altura. Subito al di là della cima c’era un gruppo di querce scheletrite, dai rami nudi. Notai un ramo orizzontale che, stranamente, aveva invece conservato quasi tutte le sue foglie. Improvvisamente spalancai gli occhi per lo stupore. Non erano foglie: erano cesene, appollaiate in fila. Mi accovacciai nella neve, per meglio confondermi col paesaggio essendo vestito di bianco, e feci fuoco sull’uccello all’estremità sinistra. Si staccò dal ramo e precipitò a capofitto nel freddo lenzuolo sottostante. Avevo previsto di sparare un colpo solo; la cesena è un uccello dalle reazioni pronte e pensavo perciò che tutte le altre sarebbero immediatamente volate via. Invece, con mio gran stupore, rimasero ferme, come incollate al ramo, senza batter ciglio. Anche quando altre due ruzzolarono giù al seguito della prima, le rimanenti non si mossero, come fossero imbalsamate. Sparai sulla quarta e la vidi oscillare leggermente senza staccarsi dal ramo. Sparai di nuovo; la vidi capovolgersi ma restare appesa a testa in giù, come un acrobata. Finalmente le altre cominciarono a svegliarsi dal loro strano letargo. Con cinguettii spaventati e un violento sbattere di ali, spiccarono il volo una dopo l’altra. Mi avvicinai e vidi che due stentavano a staccarsi dal ramo; ma finalmente ci riuscirono e frullarono via.
Raccolsi gli uccelli che avevo abbattuto e che erano sprofondati nella neve. Esaminandoli a uno a uno, vidi che avevano le zampe incrostate di ghiaccio. L’intero stormo era rimasto imprigionato dal gelo al ramo su cui si era posato. Cominciai a pensare che buon profumo avrebbero emanato le cesene friggendo in padella. Poi mi dissi: « Non è molto leale uccidere uccelli che non possono neppure volare ». Dietro di me nella neve giacevano cinque bossoli vuoti, e a soli dieci metri di distanza si rizzava come una sentinella un palo col cartello: “Vietato sparare”. « Che male ho fatto, in fondo? » rispose dentro di me un’altra voce, beffarda. « Quelle po- vere cesene stavano morendo assiderate. Non è stata forse una buona azione quella di metter fine alle loro sofferenze? ». Col passare degli anni, come tutti i malfattori che persistono nei loro delitti, constatai che la voce della mia coscienza si indeboliva sempre più, fìnchè tacque del tutto e io cominciai a cacciare di frodo per puro divertimento. L’altra voce, quella cattiva e spregiudicata, si era fatta invece sempre più forte e parlava più spesso. « Spara! » mi ordinava imperiosamente, e io ubbidivo. Poi accadde l’incidente che Jerry, diventato il mio compagno di bracconeria, ed io abbiamo soprannominato “l’episodio del gran circuito automobilistico”. All’inizio dell’autunno, circa un mese prima dell’apertura della caccia alle anitre, Jerry ed io stavamo tornando in automobile da Fosso Ghiaia, cittadina situata pochi chilometri da Forlì. Eravamo andati a caccia di conigli selvatici, senza successo, e stavamo percorrendo malin- conicamente la via del ritorno, quando in mezzo a una prateria vedemmo due stagni a forma di ferri di cavallo, su uno dei quali navigava placidamente uno stormo di anitre. Vicino alla riva, isolato dai compagni, c’era un bellissimo germano reale.
Automaticamente Jerry rallentò e io tesi la mano ad afferrare il mio .22 che giaceva sul sedile posteriore. Poco dopo ci fermammo e abbassai il finestrino. Lo contemplammo per qualche minuto, il germano reale, con la testa che splendeva come fosse di raso verde. Puntai la canna e feci partire un colpo. Il germano si afflosciò sull’acqua tranquilla. In quel momento Jerry scorse. qualcosa nello specchietto retrovisivo, lanciò un’esclamazione soffo- cata e si affrettò a innestare la marcia. Pochi istanti dopo filavamo come se la vecchia Fiat avesse un motore a reazione. Per essere sinceri, non aveva che un nuovo motore Alfa Romeo, di recente installato. Dietro di noi una camionetta verde ci inseguiva a tutto spiano. « Sento odor di guardiacaccia » borbottò Jerry a denti stretti. Premette ancora l’acceleratore, l’ago del tachimetro sali fino a quasi 120 km all’ora e i nostri inseguitori furono presto cancellati alla vista da nuvole di polvere. Mentre correvamo disperatamente, la strada cominciò a girare in un gran cerchio, e a un certo punto scoprimmo che stavamo dirigendoci di nuovo verso lo stagno. Pensando di esserci ormai liberati dai nostri nemici, ci fermammo un istante presso un canale per dar tempo a Jerry di abbattere un’alzavola. Era sdraiato sul ventre, cori le braccia protese nel tentativo di afferrare l’uccello che galleggiava a un metro dalla riva, quando vidi comparire in lontananza la solita camionetta verde. Al mio grido di allarme Jerry cercò di alzarsi, ma sdrucciolò sulla viscida sponda. Lo salvai tirandolo su per le caviglie proprio quando stava scivolando con la testa in acqua come una nave al momento del varo. Quando ci rimettemmo in moto, ci pareva quasi di sentire sul collo il fiato caldo dei poliziotti e temevamo che fossero abbastanza vicini da leggere la nostra targa. Ma riuscimmo di nuovo a distanziarli, e diventammo cosi audaci da fermarci un po’ più in là a uccidere due canapiglie, che ricuperammo con successo senza interruzioni. Solo al momento di ripartire scorgemmo di nuovo i nostri tenaci inseguitori a circa mezzo miglio dietro di noi. Ormai quella corsa in tondo era diventata per noi un divertimento. Ebbri di fiducia, ci dedicammo al gioco con passione. Al calar del sole avevamo ripetuto lo stesso circuito per ben quattro volte, coprendo circa 160 chilometri.
Non starò qui a raccontare tutte le nostre successive imprese. Ci eravamo ormai persuasi che una stella speciale ci proteggeva, e che i guardacaccia erano degli imbecilli i quali servivano soltanto a rendere più divertente il gioco, quando avvenne il patatrac. Fummo arrestati. Per ironia della sorte, proprio quella volta non avevamo intenzionalmente violato la legge.
Era un freddo e ventoso giorno d’inverno e ci accingevamo ad accostare, presso un canale, uno stormo di mestoloni, ma non avevamo ancora sparato un sol colpo, quando udimmo l’urlo di una sirena e vedemmo sulla strada un autocarro verde con un faro blu in cima, e un uomo che ci faceva cenno di avvicinarci. Era un guardiacaccia. Quando gli fummo davanti, ci arrestò e ci confiscò le licenze e le armi, accusandoci di essere andati a caccia in una riserva. La settimana seguente fummo chiamati in tribunale, dovemmo pagare una piccola multa e sorbirci un predicozzo del giudice. Nient’altro, per fortuna; infatti venimmo a sapere che ci avevano arrestati per errore, avendoci scambiati per altri bracconieri che avevano fatto strage di anitre, una notte al chiar di luna, sulla salina grande. Questi ultimi erano stati arrestati poco prima e schiaffati in prigione. Chiarito l’equivoco, ci restituirono le armi e le licenze di caccia. Quest’indulgenza da parte del giudice e la gentilezza del guardiacaccià ci diedero da riflettere. Forse i rappresentanti della legge non erano poi cosi cattivi, in fondo. E per la prima volta cominciai a chiedermi se valesse proprio la pena di continuare quella vita di bracconiere. Arrivai perfino a fare il proposito di redimermi, ma senza troppa convinzione. Per qualche tempo mi comportai bene, ma tosto la passione della caccia riprese il sopravvento. Poi qualche cosa accadde. Qualcosa che effettuò finalmente la trasformazione che i miei propositi, le persecuzioni dei guardiacaccia e il solenne ammonimento del giudice non erano riusciti a compiere. Fu durante la successiva stagione di caccia mentre ero appostato sulla riva del lago. Da lontano giunse un suono come di un gruppo di montanari delle Alpi che gorgheggiassero yodler; gradualmente aumentò di volume. Alzai gli occhi e vidi avvicinarsi dal nord un im- menso stuolo di oche, che volavano agitando ritmicamente le ali. Stavo chiedendomi da dove venissero e quanto a lungo potesse continuare il viaggio senza scendere, quando a circa cento metri di distanza vidi sbucare in riva al lago un cacciatore. Poi scorsi una nuvoletta di fumo, e su in alto un’oca si staccò dallo stormo e scese all’impazzata verso il lago. Solo una palla di fucile avrebbe potuto far scendere un uccello da quell’altezza, pensai. Il cacciatore usci dal suo riparo e avanzò sguazzando nell’acqua. Notai che l’oca era ancora viva e che cercava di fuggire a nuoto. Lo sconosciuto gli sparò tre colpi prima di riuscire a ucciderla. Vidi il maestoso uccello abbassare lentamente il lungo collo, poi rovesciare la testa, mentre il vento gli arruffava le piume.
L’uomo lo abbrancò con avide mani e lo trascinò verso riva. Allora sentii che qualcosa cominciava a bruciare dentro di me come un carbone rovente. « Vigliacco, assassino … » borbottai. Tuttavia quando lo sconosciuto approdò, qualcuno che prima non avevo visto si fece avanti. Dapprima pensai che fosse un suo amico, ma non lo era. Era un guardiacaccia, un uomo energico che sapeva il fatto suo, constatai soddisfatto, assistendo al loro incontro. Provai uno slancio di affetto e di cordialità verso tutti i guardiacaccia in generale e verso quello in particolare; un sentimento che essi non mi ave- vano mai ispirato fino a quel giorno. Ma improvvisamente pensai: « Anche tu hai fatto molte brutte cose, tale e quali come quel tizio. È un puro caso che abbiano arrestato lui invece di te ». Da quel giorno cominciò in me un mutamento radicale. I miei compagni se ne stupirono e inquietarono e presero a burlarsi di me, chiamandomi santarellino. Ma io non mi curavo di loro perchè stavo combattendo la mia battaglia personale. Era una dura lotta, ma ormai avevo capito che senso avesse il rispetto delle leggi e il dovere della lealtà verso i propri simili.
Finalmente, in un caldo pomeriggio di autunno, venne per me il momento della prova deci- siva, su in montagna. Era la stagione della caccia ai cervi e stavo scendendo per un sentiero, di ritorno al campo. Davanti a me c’era un boschetto di pioppi tremuli. Quando mi avvici- nai qualcosa si mosse, e fra i bianchi tronchi vidi un grosso forcello maschio, di colore nero pece, che zampettava impettito su un tronco caduto. Era a soli trenta passi di distanza, ma non poteva vedermi perchè ero nascosto dagli alberi. Come ipnotizzato, alzai il fucile alla spalla. Poi lo mirai accuratamente al collo. Come sarebbe stato semplice. Potevo spezzargli alla testa con un sol colpo, e la sua carne mi avrebbe procurato un pranzetto squisito. L’uccello si era fermato e restava assolutamente immobile, come per sfidarmi. La mia voce cattiva, una voce che ormai conoscevo anche troppo bene, mi sussurrò: « Avanti! Spara che male c’è a uccidere un forcello? Ce n’è son tanti, e nessuno sentirà la sua mancanza. Spara! ». Piegai il dito più saldamente intorno al grilletto; ma improvvisamente mi fermai. Non vedevo più il forcello. Al suo posto scorgevo una distesa d’acqua grigia e un’oca morente. Cominciai ad abbassare il fucile. Il forcello era ancora là, quando mi riscossi da quella visione. A un tratto agitai il braccio in segno di saluto e gli gridai: « Vattene! Vola via! ». L’uccello ubbidì. Lo vidi salire verticalmente, con un forte ronzio d’ali. Poi scomparve, e intorno regnò di nuovo il silenzio.
CATEGORIA LETTERARIA CONCORSO – “Obiettivo Caccia Passione“
Aumenta le possibilità di vincere. Vota, Condividi su Facebook e Instagram e fatti votare dai tuoi amici.
Bellissimo