Quella mattina i tracciatori arrivarono al raduno della «baracca delle due vie» davvero eccitati. Tutto il poggio intorno al monumento a Ciano era rovesciato come se vi avessero lavorato un paio di motocoltivatori. Un bel branco di cinghiali aveva pascolato nella rigogliosa pineta che si erge intorno all’incompiuto mausoleo. Gli irsuti avevano affondato i loro potenti grifi tra i soffici strati d’aghi di pino che ben ammassati tenevano il terreno morbido proprio come piace ai setoloni. Tutt’intorno al grande fuoco del rialto c’erano i più anziani del gruppo con le mani tese verso le fiamme quasi come volessero venerare quel benedetto calore del quale di lì a poco gli sarebbe rimasto solo il tiepido ricordo…
Come di consueto a fine gennaio, la giornata era di quelle crude, con l’aria ghiaccia e pungente che tagliava la faccia e gelava le mani.
Dopo un rapidissimo consulto tra i responsabili della squadra riguardante le strategie da adottare Claudio, il capo caccia, annunciò a gran voce: «Si caccia al Marroccone, i canai tutti da Ciano, le poste con me alla Voltina!».
I postaioli furono piazzati sul «botro del Marroccone», lungo il confine della riserva biogenetica di Cala Furia. Un’armatura, quella del Marroccone, assolutamente micidiale, dove di norma le padelle magicamente si rarefanno. L’alveo del torrente è ampio e caratterizzato da grandi scogli con piccole cascate e scoscesi dirupi che riducono i possibili punti di guado. I trottatoi di fuga non sono molti e dunque tutti ben conosciuti ai responsabili del piazzamento delle poste. Nella zona vi era la possibilità d’incontrare un verraccio davvero poco raccomandabile, un irsuto che già aveva castigato parecchi segugi. Un animale che almeno al piede non superava gli ottanta chili, ma che sapeva bene come dettare legge tra gl’intricatissimi forteti di stipe, corbezzoli e pruni che ammantano gran parte della zona in questione. E dunque tra i canettieri vi fu unanimità sulle strategie di sciolta. «Si scioglie solo un paio di cani sicuri, meglio non rischiare!» esclamò Rinaldo il capo canettiere, prima ancora di scendere i cani dai carrelli. «Meglio stendersi subito lungo il viottolo centrale con i cani al moschettone! », ribatté Gabriele mentre stringeva il collare di uno dei suoi maremmani tigrati. La vastità della zona impone la dislocazione strategica di alcuni canettieri in particolari punti del bosco dai quali possono dar manforte e accompagnare le canizze verso l’armatura. Appena liberati a ridosso di alcune rumate freschissime, ancora «vive», come si usa dire in gergo, di quelle col terriccio nero come il carbone e ritto come le Alpi, Veleno e Nando, un paio di segugi maremmani, attaccarono subito fiato. Dopo una serie di scagni seminati qua e là sull’aria di pastura, i due segugi sbrogliarono la matassa e presero ad accostare salendo velocemente un costone di macchia bruciata. Le due voci, una squillante l’altra più cupa, si alternavano scandendo alla perfezione tutta la scia olfattiva rilasciata dagli irsuti nel tragitto verso la rimessa. Di tanto in tanto uno dei due segugi raddoppiava l’abbaio marcando con estrema precisione ogni porzione di terreno dove l’usta era più avvertibile. Tutti noi canettieri, nonostante l’irruenza dei segugi ancora al guinzaglio, ascoltavamo con soddisfazione quell’accostamento, attendendo con trepidazione la fatidica abbaiata a fermo. I due esperti ausiliari non ci fecero certo aspettare molto. Passarono pochi minuti e dopo qualche istante di pausa, probabilmente per prendere la giusta posizione, una fitta serie di abbai cupi e raddoppiati riecheggiò dal colmo del poggio. «…Attenti! …Attenti!… I cani sono a fermo di fronte al monumento a Ciano!», gridò a gran voce uno dei canettieri più vicini alle lestre. I selvatici erano rimessi al centro di fittissimi roveti frammisti a grandi ciuffi di canne nati all’interno di una vecchia cava in disuso da anni; in una zona dove alcune polle sorgive mantenevano il terreno costantemente umido e dunque facilmente scavabile. Non ci volle molto a capire che i selvatici scovati erano di quelli poco raccomandabili. I due cani impegnati a fermo lavoravano con attenzione, marcando i cinghiali da distanza; ma ciò non bastò. Dopo qualche minuto dallo scovo un selvatico si staccò dal branco e caricò deciso uno dei sue segugi. La bestia partì ruggendo a più non posso e con le fauci spalancate si avventò verso il cane che stava dritto lungo il trottatoio d’ingresso ai covi. Un gran lamentio seguito da alcuni attimi di terrificante silenzio. Poi, con sommo piacere di tutti, sentimmo riecheggiare dal folto dei pruni anche l’abbaio del segugio oggetto delle attenzioni di quell’iracondo setolone. «…Abbaia! …abbaia!… Senti come gli dà!» esclamò per radio il padrone del malcapitato segugio. «Guaiva mentre scappava, vedrai che non l’ha preso!», ribatté uno dei suoi compagni. Appena un attimo dopo gli istintivi commenti del caso, i canettieri più vicini all’accaduto si organizzarono per affrontare quei selvatici. Tentare il tiro a fermo non era di certo cosa semplice: la macchia in quella zona è davvero tremenda, assolutamente impenetrabile. Un’infinita serie di grovigli di rovi, cannelle e arbusti d’ogni genere, un vero e proprio muro di vegetazione entro il quale, come tanti cunicoli sotterranei, si incrociavano i trottatoi dei cinghiali. A ogni modo un paio di canettieri non si tirarono indietro e carponi a quattro zampe, trascinandosi dietro lo schioppo dalla parte del calcio, si tuffarono nel fitto dei covi. Intanto, ogni pedina mobile della battuta prese velocemente posizione per guidare al meglio gli irsuti verso le poste. Gli scaccioni si misero tutti in linea lungo un ampio viottolo per evitare che gli animali tornassero verso la pineta oltre il mausoleo di Ciano. Mentre la maggior parte dei canetteiri aveva il suo daffare a mantenere calmi la maggior parte dei segugi che ancora era rimasto al guinzaglio. Sciogliere ancora cani su quel branco di cinghiali inferociti sarebbe stato piuttosto rischioso, meglio aspettare che i canai incaricati raggiungessero i selvatici costringedoli alla fuga. Ormai era passato oltre mezz’ora da quando gli irsuti erano stati scovati e i due espertissimi segugi, avevano risposto a tono alle continue cariche degli iracondi setoloni. Finalmente dopo un lunghissimo accostamento fatto in parte a quattro zampe in parte completamente sdraiati ventre a terra, uno dei due ardimentosi canettieri giunse a pochi metri dal posteriore dei due coraggiosissimi segugi, mentre l’altro rimase immobile ad una tretina di metri più indietro.
Il buio di quel forteto era inquietante, i rovi erano così fitti che lasciavano filtrare solo pochissimi tenui raggi di luce e il continuo grugnire delle scrofe per tenere compatto il branco somigliava molto al ruggito di bestie feroci
In quegli attimi nella mente del cacciatore si addensarono mille pensieri, mentre tempeste d’adrenalina imperversavano in ogni centimetro del suo corpo. Ma la sua saggezza venatoria deve sempre avere la meglio: è imperativo rimanere assolutamente lucidi e reattivi. Pian piano, aggrappandosi a una stipa si mise in ginocchio e con le mani completamente intrise di terriccio e solcate da un’infinità di piccoli graffi aprì lentamente la sua doppietta, e indirizzò le canne verso un tenue spiraglio di luce per controllare che fossero perfettamente libere. Poi infilò rapido la mano nella tasca destra, quella dove teneva le solite quattro gloriose cartucce a palla, ne prese un paio e le infilò all’unisono nello schioppo. Ma prima di richiuderlo ebbe cura di mantenere la chiavetta aperta e di accostarlo con estrema delicatezza, come fosse di cristallo: Dio solo sa quanto sia funesto per i selvatici quel click metallico! Intanto i due segugi, avvertita la presenza del cacciatore, avevano rinvigorito la loro azione raddoppiando di continuo l’abbai e alternandoli a ringhi e latrati. Con la classica freddezza che contraddistingue tutti i grandi cinghialai, il valoroso canettiere rimase in ginocchio immobile a pochi metri dal cane, si portò il fucile alla spalla e lo spianò dritto verso quel punto sul quale si dirigevano le racanate dei due maremmani. Sapeva bene che di lì a poco uno dei selvatici sarebbe andato in difesa attaccando i segugi, e di certo nell’impeto dell’attacco si sarebbe scoperto permettendogli una fucilata sicura. Passarono circa dieci interminabili minuti prima che una fucilata, secca come uno schiocco di frusta, facesse sobbalzare tutti. Il verro nel pieno delle sue forze, con un micidiale scatto caricò il segugio che gli stava più vicino. L’animale con la velocità di un felino fuoriuscì dal fitto delle cannelle a testa bassa puntando dritto verso quegli assordanti latrati che oramai da un bel po’ di tempo l’avevano esasperato. All’improvviso le canne schioccarono, i rovi s’aprirono e un bolide scuro come la pece apparve dal fondo del trottatoio. Il segugio guaendo spaventato fece un rapido dietrofront dirigendosi verso il canettiere, mentre il suo antagonista avanzava senza indugi. La fucilata fu esplosa d’istinto. Una stoccata precisa raggiunse l’irsuto appena sotto l’occhio sinistro; l’animale sbandò sulla destra, barcollò per qualche metro, e finì per incastrarsi tra i nodosi legni di una fustaia di albatri. Sulla schioppettata il resto dei cinghiali partì in tutte le direzioni; un paio di porchetti con la scrofa, sfilarono di fianco al trottatoio dov’era sdraiato quel verro rubando l’altra fucilata del canettiere che ancora controllava gli ultimi scalci dell’animale. In un attimo tutti gli altri canettieri liberarono i loro ausiliari. Una trentina di segugi si lanciò a gran voce dietro a quei selvatici. In breve si formarono almeno tre fragorose canizze tutte dirette verso il fosso di confine tra il libero e la riserva naturale: tutto andava per il meglio, i cinghiali stavano avanzando proprio dov’erano piazzate le poste. «Attenti, attenti alle poste i cinghiali sono partiti, …scaccioni alla voce, fatevi sentire!». La bagarre era scoppiata; dopo la fucilata a fermo che aveva sdraiato un bel maschio fornito di due micidiali difese, tutta la macchia aveva preso ad animarsi di voci d’uomini e di segugi. Dopo un paio di giri sui «Poggi della Sanguigna», la più vigorosa delle canee sfilò diretta verso il botro giusto. Pochi istanti dopo una coppiola strinta, seguita a breve distanza da un terzo colpo riecheggiò dal profondo dell’alveo dov’erano sistemati i fucili. Alle poste erano arrivati due bei porcastroni da una quarantina di chili. Il primo fu stecchito dalla coppiola poco prima che giungesse all’acqua, mentre il secondo accompagnato dal terzo colpo, letteralmente volò il greto sparendo come un missile in un fitto mortellaio. I segugi arrivarono come treni, alcuni si fermarono sul morto mentre gli altri inseguirono a piena voce l’animale rimasto indenne. Con un filo di voce il fortunato postaiolo disse via radio: «Venite a recuperare i cani, il primo l’ho sdraiato; il secondo, accidenti a me, corre più di prima, una decina di segugi sono già nel cuore della riserva!». Ma prima ancora che i canettieri raggiungessero la posta in questione, un’altra canizza giunse nei pressi del fosso richiamando prontamente tutti i segugi rimasti sul morto. Così di lì a poco si formò una canea davvero spettacolare. Una moltitudine di voci dai toni differenti dette vita una indimenticabile sinfonia capace di gonfiare il petto di tutti i canettieri e «mandare in orbita» i postaioli. «Eccolo, eccolo attenti alle poste è grosso!», gridavano a gran voce i canettieri. Pochi minuti e una micidiale scarica, degna di un palco a colombi, fece cessare la bagarre. Un altro grosso maschio era caduto esanime dopo un’infinita serie di schioppettate esplose in principio forse con un po’ troppa fretta. Ad ogni modo alla fine una delle schioppettate colpì quel’irsuto in pieno cuore ghiacciandolo sul colpo. La battuta, tra una canizza e l’altra, andò avanti fino al pomeriggio inoltrato, quando oramai esausti i canettieri decretarono la fine delle ostilità. Erano tutti davvero soddisfatti, i «cinghiali di Ciano» erano stati capaci di regalare indimenticabili emozioni a tutti.
Testo e foto di Federico Cenci