Con l’ultima affannosa sgambata sgusciò dall’ombra evanescente del mattino e colse il sole sul ciglio dell’alta conca adagiata sotto i muraglioni di roccia della cima. Ritrovò l’antichissimo larice ardito solitario che le tempeste han ferito in ogni ramo e a mezzo scortecciato lungo il tronco contorto, sì buttò a sedere sul lastrone liscio ch’è ai suoi piedi gli mosse allegria la balorda ìdea che sudi quello, ormai a pensar tutte le volte che ci si era seduto. avrebbe dovuto esserci impressa l’impronta delle natiche. S’appoggiò di schiena alla scorza ruvida del tronco, le lunghe gambe distese sulla pietra e pur la nuca rovesciò all’indietro, il volto pienamente offrendo al sole per assorbirne il tepore insieme alla luminosa percossa filtrate dalle palpebre abbassate.
Così immobile gli parve sentirsi una cosa confusa con tutte l’altre cose immobili, come in esse compenetrato nel legno, nella pietra nel silenzio, nella luce. Gli era sempre accaduto e dunque tutto era uguale nulla era mutato. Nel silenzio correvano le stesse voci rivelatrici dì sempre. poiché il silenzio non è mai vuoto di fermenti. vi passan bisbigli e lusinghe e incompiutezze di attese, e pur di notte, quando avvolge l’alto bivaccar sperduto tra le stelle, s’infittisce di chiacchericci confusi, di misteriosi richiami di stupefatti abbandoni.
Percepì nell’aria il querelo frangersi d’un refe d’acqua che vien giù nell’ambra di una profonda crepa di roccia. alta sulla conca. e questo voleva significare come sempre. che l’aria si muoveva verso di lui, per il verso giusto. Dunque trasse il binocolo.
Giosuè un montanaro di quelli che se gli sgambi appresso devi esser costruito alla sua maniera, o diversamente t’inceppi e vedi nero.
Per cui, il giorno che il medico della città, trastullandosi con certe strisce di carta imbrattata di fantasiosi ghirigori gli disse che i camosci doveva scordarseli, e pur le fatiche dell’alpeggio, giacché l’altezza, anche a rimanere immobile, gli avrebbe fatto male, lo straziò un gran gemere di solitudine.
Risalì alla sua casa scoprendo che la primavera s’era data un gran daffare per agghindar la valle con vesti nuove, impastando colori sulla tavolozza del bosco e della siepe, della alte quote e persino del torrente, che cantava nella luce di ritrovate iridescenze. Immaginò la neve sciogliersi sul pascolo di subito intenerito d’umido verde, le rocce scintillanti e pronte ad assorbir tepori di sole, ebbe voglia di camminare nel bagliore giallo delle ginestre fiorire, ascoltando venir dal bosco le note flautate del cuculo. Ma ora, queste cose che erano naturalmente frammischiate al muover d’ogni sua giornata, gli apparivan d’una fìssità stupefatta, alcune anche velare o dubbiose, come a guardai’ dal chiuso attraverso un vetro appannato o deforme, ne percepiva il distacco.
I camosci! Come scordarseli, se li ave a nel sangue? Il camoscio non è la bestia che rapini alla montagna per portarla a valle e passar fra le case del villaggio col codazzo dei bimbi appresso e le donne che s’affacciano agli usci aggiustandosi sul capo il fazzolettone nero o giungendosi le mani al viso, e pacche sulle spalle, bravo Giosuè, dagli amici interessati che pensan subito al cenone in compagnia. Ma, no, ma no. tutto questo non conta,
Il camoscio è una febbre, una maniera d’esser fra le rocce a guardare il cielo, un’esaltazione, una malinconia.
Ogni volta è l’addentare up diverso sapore, la stupefazione di un diverso stato di grazia. Poi, niente. L’animale dagli occhi spenti e dal ventre aperto che abbrutisce l’ultima fatica. più che alle spalle è greve all’anima per quel suo abbandono assurdo nell’immobilità.
Difficile cavar parole a Giosuè che dicessero le cose di quel suo mondo intimo, lievitato da sensazioni fonde, de immediate rivelazioni. Ci riusciva qualche volta Gibì, con quella sua maniera disincantata di spellar l’anima al prossimo suo, ma doveva aver dalla propria parte un fuoco di baita, un fianco da sgocciolare insieme e giunger con questo al magico momento che ti fa percepir l’alito delle stelle sulle piode del tette, e allora guardi all’uscio chiuso e alla fiamma del focolare con pia sciolto abbandono,
Parole scarne e precise, confessioni, voglie e rimpianti. Giorni deliranti di luce sugli alti distacchi delle creste, cader di cieli frantumati dalla tempesta improvvisa, bivacchi sperduti con tutte le cose che la notte disperde e di vivo rimane soltanto il cuore colle voci rimaste e con quelle taciute. E, poi, il vento che affila le quinte di roccia e scava i canaloni, e schiumar di tormente e silenzi, e immobilità palpitanti fra la pietraia e il nevaio che geme, a spiar la montagna, a implorar la rivelazione, il camoscio.
“E le campane, Giosuè?”
“Uhm..”
Già; ogni volta che il camoscio cade, pare a Giosuè udir nell’aria incupita il battere a morto di tutte le campane della valle, tutte insieme, quasi a percuoterlo.
“Ma non andarlo a ridire, o passo per matto!”
Nel tardo meriggio d’un giorno di caccia, lungo una sosta presso l’acqua d’un fonte eh’é ai margini della selva già s’indovina il villaggio dai fumi che. al crepuscolo. si dissolvono sul fondo violetto della valle. Giosuè era stato raggiunto da Odi che sedeva a balzelloni recando sulle spalle il carico trionfate d’un camoscio stupendo.
«Oh, Giosuè!»,
«Bello, Gibi». «E voi?».
«Da prenderlo per le corna, e l’ho mancato…».
Non aveva sentito invidia, lui per lunghi anni il più forte di tutta la valle, per quel satanasso che lo soppiantava: solo una gran tristezza. Gibì l’aveva capito, quasi si sentiva imbarazzato di quell’incontro, è un corcontento che vorrebbe specchiarsi sempre in un mondo che gli rimandi i riflessi della sua serenità perpetua.
«Perché non si va insieme, Giosuè, a far qualche sgambata?».
La risposta che n’ebbe andò poi a ridirla in giro: «Ma sentite che fantasie, il vecchio Giosuè! Dice che una donna che gli vada per il verso giusto, lui se la spolpa da solo».
In verità Gibì aveva inteso assai bene di quali polpe fosse fasciata quella donna e qual era il giusto verso che andava bene a Giosuè.
Quando le bestie lasciarono gli staili d’inverno per salire all’alpe, Giosuè le seguì lungo il tratto piano della mulattiera che conduce alla passerella del torrente e la tristezza gli mordeva il cuore. L’evento è importante, così come quello della calata a valle, di certo, allora che gli orizzonti si fanno meditabondi e anche nel cuore degli uomini passano voglie divérse. Ma salir di primavera all’alpeggi è un rito antico di generazioni, è andare incontro all’invito delle cose, dei cieli che approntano di alba in alba i fulgori della grande estate, dell’erbe che rinverdiscono fiorite sui pascoli alti e la montagna n’è tutta ingentilita.
La vita, sull’alpe, è fatica, ma fatica consumata nel sole, illuminata dall’altezza, pulita.
«Oh, Pà…».
La Nora s’era avviata per ultima, l’aveva abbracciato e lui l’aveva ricambiata con due dita di carezza sulla gota arrossata, ma senza trovar parole con cui vestire il trasalimento di memorie che in quel punto l’aveva devastato. La Nora era nata diciotto anni addietro sullo spegnersi della madre, un abisso di tempo.
Vuote le stalle, vuote le poche case, il villaggio tace nella gran luce dell’estate, col sole che rifrange riverberi sulle piode dei tetti, intepidisce l’acciottolato dei vicoli e matura gli orti.
Il villaggio si ravviva appena sul finir della settimana, quando calano dagli alpeggi quanti debbono rinnovar provviste e d’attorno è tutta un’alacrità affrettata di donne e meno pressanti indugi d’uomini all’Osteria della Geppa. La quale, essendo una «giovane un po’ vecchia», che vuoi significar zitella anziana, e parente di Giosuè, di questi s’era impegnata di prendersi cura lungo il tempo della forzata solitudine.
Fu una lunga estate, per Giosuè, e inquieta per le nostalgie e i distacchi e le voglie che gli nascevano dentro. Si ritrovò in casa con alcuno dei suoi il giorno della sagra d’agosto e poi per la sepoltura di Giovannone, che un fulmine aveva steso secco sul sentiero dell’alpe e, poiché in vita non lo era mai stato, fu quella l’unica occasione ch’ebbe di passar per anima buona, almeno sulla targhetta della sua croce, in camposanto. Tanto, là sotto, non avrebbe più dato fastidio a nessuno.
Maturò il tempo di caccia. Come una vecchia dama decaduta, dopo aver ubriacato i saloni del cielo coi lampioni dell’ultimo tramonto, l’estate ripose i suoi abiti sgargianti dentro i segreti canterani sparsi al di là degli orizzonti. E l’alba fu subitamente diversa.
I cacciatori eran per montagna, se l’aria tirava per la quale si indovina- vano i colpi di schioppo che la distanza affievoliva; dai prati e i coltivi e i boschi del fondo valle, salivano, insieme ai vapori del mattino, le canizze alacri che inseguivan la lepre: un colpo, quello giusto, e i latrati tacevano, la lepre non correva più. Persino Quaresima tuonava col suo vecchio tortiglione, e quello lo si udiva bene perché Quaresima non s’allontanava dai margini del villaggio, nascosto sotto quattro frasche a far la posta alle ghiandaie che vengon sulle quercie del primo bosco, oppure ai merli che tesson la spola dalla macchia fitta delle robinie all’edera che riveste quasi per intero una sua vecchia stalla a mezzo diroccata.
Dal balcone della sua casa Giosuè spiava giunger tutti quei suoni, che filtrava nel gioco dolente dell’immaginazione, guardava la montagna intenerita dalle velature azzurrine che il primo autunno fiata nell’aria insonnolita. Ma era sempre e solo il camoscio che lo bruciava di febbre sotto la pelle, n’era come stregato, altre cacce non l’avevano mai attratto.
Ogni estate, essendo sull’alpe, Giosuè i suoi camosci se li guatava da vicino, giorno dopo giorno, giungendo a spiarli presso le loro alte pasture, seguendone gli spostamenti, scoprendone i passaggi. Tornava al crepuscolo, nell’ora in cui la mungitura è finita e le bestie sostano immobili contro gli incendi che bruciano il cielo e, dentro le baite, i grandi fuochi fasciano il rame dei pentoloni colmi di latte da cagliare. Rientrava nel mondo delle parole, dei volti, delle cose da fare, ma come stra nito, avendo sempre in corpo ciò che lassù aveva vissuto, sopraffatto di partecipazione.
Ora, tutti i richiami di quelle memorie e i suggerimenti ch’eran nell’aria, gli si guastaron dentro quasi con rancorosa ribellione quando il Vanin postino, detto il Tromba per via del fregio che porta sul berretto, entrando dalla Geppa onde reintegrare in vino ciò che il sudore gli aveva tolto per muover la propria corpulenza sulla mulattiera che tira su. impietosa, dal fondo valle, gli si rivolse rumorosamente:
«O Giosuè, i camosci scendono al piano».
Dalla balconata che dà sulla valle, infatti. dove tutti s’affacciarono per spiar l’unico tratto di mulattiera al quale i faggi ancor carichi di verde consentono una breve occhiata al cielo, videro il cacciatore scender lesto col suo carico prezioso. il sole ogni poco accendendo rapidissimi bagliori sui metalli dell’arma. Un forestiero, il Tromba l’aveva incontrato alle prime case. scarse parole di saluto e via. neppur rallentando, col passo d’uno che ci sa fare.
Giosuè non aveva detto parola, si sforzava di ricacciar pensieri, ma la voglia gli covava dentro, anche se al momento soltanto bisbigliata. A casa sfoderò il suo fucile, lustro, ben oliato, lo investì un trasalimento d’ore stupefatte. tonfi di campane che battono a morto, il camoscio.
Un uomo cammina per lungo tratto a passi lenti, poi lo graffia la voglia di tornare a correre, e corre, e non pensa di poter cadere.
Poche cose nel sacco, una manciata di colpi, il binocolo sul petto, il fucile a tracolla. Una notte chiara, un cielo tranquillo, il remotissimo batter delle due ore dal fondo della valle, i tocchi che vengon su dissolvendosi come bolle alla superficie di un’acqua immobile. Dall’ultimo prato guardò i tre lumi del villaggio, pensò ch’entro una settimana si sarebbe ripopolato: la gente e le bestie sostavan gli ultimi giorni a consumar l’ultime pasture degli alpetti più bassi, i primi della risalita di primavera, gli ultimi della calata d’autunno.
Aveva lasciato la chiave nella toppa. un biglietto per la (3eppa sul tavolo di cucina, saliva stranamente tranquillo, lasciandosi dietro le immagini scialbe che furon d’ogni giorno di quella sua amara lunghissima estate. Ora la voglia gli cantava dentro, Dio Santo fa che le campane battano a morto, prima di sera! Un cosciotto l’avrebbe mandato a quel medico, si studiava le parole colle quali l’avrebbe accompagnato, una cosa un po’ ardua. di certo, ma gli veniva in mente che sarebbe ben riuscito a spiegare che le campane a morto erano sonate, sì. ma non per lui. Sorrideva, non sentiva fatica.
Spense il lume alla base del canalone. era l’ora in cui la montagna ritrova il suo cielo e il silenzio ha una voce diversa; indugiò un poco per ascoltarlo, quasi dolendo di non saper cogliere cose che vi trascorrevano, nell’ugual tempo remote e incipienti.
Il canalone va su a tratti poco men che verticali, dentro il solco profondo l’ombra della notte vi persiste. appena attenuata dalle macchie della vecchia neve che neppur l’estate può cancellare. Infilarsi in quel camino nel momento in cui la luce si rinnova e blandisce la montagna, dà quasi sofferenza. Eppure è la sola maniera di sbucar sulla conca all’improvviso, senz’essere avvertiti. Giosuè ritrovò i vecchi appigli, il cauto destreggiarsi sugli sfasciumi di roccia a impedir rotolar di pietre e allarmi d’echi. Lentamente, senza affanno, guadagnò l’alto del canalone dove la pendenza raddolcisce, guardò il grande lance illuminarsi del primo sole, gli sgambò incontro come a una creatura amica felicemente ritrovata.
Trasse il binocolo.
Scrutò la montagna nei siti dove l’antica esperienza gli suggeriva potesse folgorar la rivelazione, adagio, con metodo, essendo arduo percepir la giustezza delle cose percosse dal sole radente del primo mattino, colle ombre lunghissime, i riflessi riverberati dalle rocce levigate, gli arabeschi della prima spruzzata di neve autunnale non del tutto disciolta.
Stava bene, il lungo salir nella notte non aveva lasciato fatica, nessun pensiero di quanto era stato, la magia dell’ora lo possedeva e lui vi si abbandonava quasi con tenerezza, cosa fra le
Lo percorse un brivido lungo: eccoli i camosci pasturar tranquilli sulla balza verde ai piedi della parete, ma poi un gran rombo sordo in mezzo al petto e il cielo improvvisamente nero, solcato da immobili incrinature bianche. Scivolò all’indietro, restò colle spalle addossate al grande lance, la nuca come adagiata dentro una nicchia che pareva esser stata, per la bisogna, giustamente scavata nel tronco.
I camosci pasturaron tranquilli. Le campane a morto sonaron tre giorni più tardi.
(Conoscendo bene Giosuè, si può dire che i pensieri riferiti non potevano esser diversi. Altrettanta certezza non vien consentita per i camosci. giacché, delle cose vedute non rimangon tracce nelle lenti dei binocoli. Piace, tuttavia, immaginare che li abbia scoperti pasturar tranquilli sotto la grande parete, parendo. a chi ancor cammina, non esser tristezza giunger così).
Racconto inviatoci da Vincenzo P.