Ci sembra quasi irriverente definire minimali certe cartucce quando hanno offerto e tuttora offrono a cacciatori veterani e a giovanissimi nembrotti un ampio appagamento in certe esigenze piccole per le dimensioni, ma enormi per la soddisfazione che ad esse è legata. Rivediamo in una bella veste cromatica la scatola delle odierne cartucce calibro 9 mm Flobért e il pensiero corre esattamente a sessant’anni fa quando, compiuti i dodici anni, per Natale arrivò il primo fucile per cartuccia a polvere, un Beretta Mod. 412, monocanna così camerato e di cui un amico con qualche esperienza venatoria ci aveva narrato meraviglie. Al tempo era fatto normale che i ragazzini iniziassero molto presto l’uso dei fucili destinati al tiro a segno e alla piccola caccia ricevendo nelle date canoniche regali di tal fatta insieme a poche e ben definite regole di comportamento da cui non si poteva prescindere. La cultura e la responsabilizzazione erano alla base della formazione generale dell’individuo e non era mai troppo presto per iniziarla: quel che si radica nella mente nel suo primo sviluppo difficilmente viene sviato in seguito mentre il differire tali pratiche troverà un terreno via via meno ricettivo, più critico e saccente, il retaggio del ’68 che da noi non è mai passato con cui si è data convinzione a tutti di poter discettare su tutto senza conoscere.
Ma torniamo ai nostri fuciletti e alle cartucce che li animano. La confezione odierna della 9 mm Flobért allestita da Fiocchi si presenta rutilante e scicchettosa non solo per il robusto cartoncino della scatola e la stampa cromatica con zone dorate a elegante contrasto con il rosso della marca e del cartiglio aziendali e poi ancora con un verdone scuro da cui appare la scritta su due righe Flobert 9 mm – D.F. a pallini; in un dischetto ben visibile spicca il 10 riferito alla numerazione dei pallini e la dicitura 50 cartucce relativa al contenuto; sui fianchi le norme CIP, la scritta inglese Shot e un’ulteriore precisazione sui pallini n. 10 con 1,9 mm di diametro e la caratteristica della percussione anulare.
La cartuccia
Nel pratico alveare in plastica sono disposte le cartucce facilmente prelevabili con due dita e dotate di un bossolo in ottone di bell’effetto e sicura funzionalità: rammentiamo come un tempo questo calibro vedesse in uso bossoli nichelati mentre rimane tuttora in auge la chiusura con dischetto di cartoncino pressato nella sua sede senza necessità di orlatura. Sul fondello spicca lo scudetto con le inziali GFL, decisamente più appagante della “ f “ minuscola e in corsivo in uso per diversi anni. I marchi storici vanno mantenuti, magari con piccolissimi aggiornamenti estetici: rammentiamo la RR del campo automobilistico passata da rossa a nera alla dipartita di uno dei due soci, se ben rammentiamo Royce. La fattura si presenta decisamente di classe elevata come si impone per un’azienda che ha nella finezza esecutiva e nella scelta dei migliori materiali il suo punto di forza: il robusto risalto tondo al fondello funge da aggancio per l’estrattore e contiene il propellente per l’innesco di questa cartuccia a percussione anulare. La sigla D.F. significa Doppia Forza: oggi è l’unica ad essere prodotta mentre un tempo erano proposte anche le sorelle a forza semplice con bossolo proporzionalmente accorciato. Non faccia sorridere tutto ciò: un tempo la speculazione intesa in senso latino di risparmio e quindi di adeguamento proporzionale fra spesa e impresa era fattore molto seguito e la scelta delle cariche funzione precisa di quanto occorreva ottenere. Rammentiamo come il papà del nostro maestro della caccia al capanno caricasse le sue cartucce con borre incoerenti ricavate da materiali usualmente buttati e risparmiasse sui cartoncini sigillando la carica con una goccia di cera… tanto il fucile era sempre rivolto in alto o perché nella piccola rastrelliera del capanno o perché indirizzato verso le prede poste sui rami a non più di una dozzina di metri.
L’impiego odierno
Dietro alle siepi di frasche o alle quinte di verdi canneti, nascosti sui fienili o alla peggio nei pollai di cascine proprietà di contadini compiacenti i ragazzini degli Anni 50 e dei primi 60 insidiavano passeri, allora abbondantissimi, e all’epoca opportuna tante altre varietà di uccelletti cacciabili senza problemi; l’alternativa era la caccia alle prede di pelo sotto forma di ratti che in certi anditi delle suddette cascine non mancavano mai. Poi crescendo era iniziata l’era del capanno con i richiami vivi: non rientrava certo nelle tradizioni del Piemonte sabaudo e solo grazie a un personaggio giunto dalla bassa bresciana, il bravo Costantino, si erano realizzate le possibilità di tali esperienze che sarebbero durate per decenni con grande soddisfazione. Il 9 Flobért era diventato il fucilino da appoggio per le prese più a ridosso del nascondiglio oramai realizzato in legno con bomboletta del gas e stufetta a irraggiamento per i periodi più freddi: i calibri 20 e 28 tenevano la scena con un 12 sempre pronto a risolvere le questioni più intricate. Venendo ai giorni nostri i capanni della valle del Mella ospitano sempre una simile batteria di fucili perché lo spirito del risparmio qualifica i cacciatori della zona: l’inutile sperpero di energia, polvere e pallini, è giustamente malvisto quindi a colpo d’occhio si sa che tale presa è a tot metri e ci vuole il 20, l’altra si accontenta del 28, e quella lì che ti pare di toccare con la canna è padroneggiata dal piccolo 9 mm. Oltre al fattore distanza gioca ovviamente quello dell’entità della preda: le peppole, croce e delizia di questa caccia, si trattano con cura e risparmio, le furbissime e robuste cesene meritano e ottengono qualcosa di ben più deciso. Chiudiamo sottolineando come questa forma di venazione sia invisa purtroppo anche a un buon numero di cacciatori, sia con il cane che con la canna rigata: apparteniamo a questi ultimi, ma ci sentiamo di affermare che la poesia di un capanno è di una finezza incredibile, ben difficilmente comprensibile da chi non l’abbia mai provata.
Prove di tiro
Abbiamo impiegato bersagli UIT da PA e tiro celere di PGC: i cerchi misurano rispettivamente 4,5 cm per la mouche, 10 cm per il “10”, 18 cm per il “9” e 26 cm per l’”8”. Abbiamo sparato sul rovescio bianco con una macchia nera centrale per riferimento di punteria, ma presentiamo i bersagli dalla parte nera dove meglio si possono osservare i fori dei piccoli pallini n. 10 da 1,9 mm; a volte è visibile il foro creato dalla borra. Notiamo subito come a 12 metri la Anschütz tenda a chiudere maggiormente le rosate, quindi garantisca una maggiore lesività con maggior numero di pallini sulla preda a prezzo di una mira più accurata. Evidente come questa distanza di 12 m sia quella con certe possibilità di riuscita mentre ai 20 m l’aleatorietà sia di casa e Beretta, comunque consenta un risultato migliore. In definitiva possiamo definire i 16 m quale gittata massima utile per non sprecare il colpo e, soprattutto, per non ferire il selvatico.