Il servizio proposto il 30 aprile scorso dal TG5 (edizione delle ore 20) sulla caccia di selezione all’elefante in Botswana – chiusa nel 2014 e riaperta nel 2019 a causa dei risultati controproducenti dovuti al repentino incremento del bracconaggio e agli inevitabili abbattimenti necessari per limitare i danni all’agricoltura – offre l’opportunità di una riflessione sul ruolo “utile” della caccia nel gestire i prelievi e assicurare la conservazione delle specie selvatiche, anche nel caso in cui queste raggiungano densità difficilmente compatibili con le esigenze di convivenza con le popolazioni rurali.
Non possiamo ignorare, in questo caso, che nel 2050 la popolazione africana si prevede raggiungerà i 2,5 miliardi di abitanti, circa il doppio di quella attuale e ben 11 volte in più rispetto al 1950. Di fronte a tale scenario il rischio per la conservazione della fauna africana è fortissimo e la soluzione non potrà certo riporsi nella sola presenza dei parchi! È invece fondamentale che le comunità locali, anche in Africa, possano percepire la fauna selvatica come una risorsa capace di generare benefici (i cosiddetti servizi ecosistemici) e non la s’intenda solo una fonte di insicurezza e di problemi di convivenza. Per chi si occupa seriamente di conservazione il “saggio uso” delle risorse e il coinvolgimento delle popolazioni locali sono i pilastri su cui si fonda il successo delle politiche di salvaguardia della biodiversità.
Non dimentichiamo che le popolazioni di elefante nell’Africa meridionale e orientale hanno registrato aumenti significativi (IUCN, 2008), tali da rappresentare una seria minaccia per le fragili economie locali e alimentare il rischio di un bracconaggio incontrollato per auto-difesa degli abitanti delle zone rurali in espansione. Come per il famoso caso del leone Cecil, abbattuto in perfetta legalità da un dentista americano in Zimbabwe nel 2015, anche nel caso proposto dal TG5 il prelievo selettivo di due elefanti da parte di altri facoltosi americani ha fatto gridare alla “strage”. Posto che vi è molta differenza tra i due casi, rispetto all’impatto che questi selvatici possono avere sull’economia delle popolazioni locali, non si dovrebbe ignorare che il rischio vero per la conservazione della fauna africana deriva, in quel Continente come altrove, dallo sviluppo demografico incontrollato delle comunità umane.
Oggi più che mai servono urgenti politiche di sviluppo sostenibile anche in Africa, tali da valorizzare in primo luogo il grande patrimonio naturale ancora fortunatamente presente, in modo tale che non gravi sulle fragili economie agricole locali. È nell’interesse di tutti, degli africani in primo luogo, ma anche di noi europei, come possiamo ben comprendere. La caccia è stata in varie forme descritta come un importante strumento di controllo delle popolazioni animali che, correttamente inserita nelle strategie di conservazione della fauna selvatica, può concorrere a ridurne la pressione sui territori rurali, rendendola più accettabile dalle società moderne. L’uso sostenibile della fauna selvatica è pienamente in linea con gli obiettivi della Convenzione sulla Diversità Biologica delle Nazioni Unite (CDB, 1992), che contempla l’uso sostenibile della biodiversità e l’equa condivisione dei benefici rinnovabili derivanti dal suo saggio utilizzo, a beneficio delle comunità locali.
Ma sono molte le Convenzioni e gli Accordi internazionali che fanno riferimento all’uso sostenibile delle specie selvatiche. In esse risulta chiara l’idea che l’uso sostenibile si riferisce contestualmente sia alla conservazione della biodiversità, sia al sostegno delle comunità che da essa dipendono. E questo in riferimento ai bisogni, alle aspirazioni, ai servizi socioeconomici e ai valori culturali a cui le comunità ambiscono e che intendono tramandare alle generazioni future. La consapevolezza di tali opportunità è un fenomeno oggi in aumento nel Nord America e anche in Europa, dove il consumo di specie selvatiche può essere visto come ecologicamente molto più sostenibile e naturalmente rinnovabile rispetto alle risorse prodotte dall’uomo (ad es. carne di selvaggina naturale invece di quella di bovini o polli da allevamento).
Non dimentichiamo che gli Ungulati in Italia sono aumentati di circa 200 volte dal dopoguerra ad oggi, per motivi ambientali e gestionali, e attualmente si stimano quasi 2 milioni di capi (soprattutto cinghiali e caprioli), che dispongono di circa l’85% di territorio potenzialmente idoneo. Questo capitale naturale non può non essere gestito in modo sostenibile, per conservarlo e per fruire dei servizi ecosistemici che è in grado di elargire annualmente, limitando l’impatto su habitat e agricoltura, e prevenendo l’insorgenza di epizoozie come la peste suina africana. In tutto ciò la caccia e i cacciatori sono “strumenti” indispensabili. E c’è realmente da preoccuparsi per il calo demografico in corso. In diversi Paesi i ricercatori studiano il ruolo dei cacciatori nelle varie pratiche di gestione delle specie selvatiche nonché il contributo che offrono alla protezione ambientale.
Ma se ne studia anche il reclutamento e la loro conservazione numerica. Le ricerche sulla tendenza numerica dei cacciatori sono particolarmente frequenti nel Nord America, dove il finanziamento della conservazione delle specie selvatiche dipende in modo significativo dalle spese per le licenze di caccia. In ogni caso vi sono specie (es. cinghiale, elefante) che più di altre necessitano di essere mantenute sotto controllo, in modo sostenibile e per ragioni economiche di convivenza con le comunità rurali. Gli strumenti a disposizione sono principalmente due, ovviamente utilizzabili in sinergia a seconda dei casi concreti, ma sostanzialmente opposti sotto il profilo economico:
- la valorizzazione della fruizione venatoria (tasse, carni, indotto, tradizioni, ecc.) come fattore di gestione e di contenimento, oppure
- la necessità di sostenere spese ingenti per remunerare/indennizzare personale incaricato di svolgere attività di prevenzione e porre comunque in atto interventi di abbattimento/cattura a fini di controllo faunistico.
Il “non intervento” in questo campo sostanzialmente non esiste, almeno su larga scala, ma come si vede di norma nemmeno nei parchi, tantomeno in Africa e in una prospettiva imminente. Quando, invece, come sembra, non si segue un approccio di sviluppo sostenibile, poiché si inseguono tradizionali schemi di continuo sviluppo industriale strettamente legato alla cosiddetta “società dei consumi”, allora l’indignazione per il prelievo venatorio selettivo della fauna selvatica si rivela come un’operazione di greenwashing, per scopi di marketing o di contingente indirizzo politico, ma senza un reale interesse a conseguire un miglioramento duraturo delle condizioni di vita delle comunità rurali. Approccio, ad onor del vero, abusato nelle società occidentali e in Italia in modo particolare. Le considerazioni sopra esposte delineano una visione conservativa delle risorse naturali scevra da contenuti emotivi e costituiscono una declinazione della transizione ecologica applicata alla conservazione della fauna selvatica.