In entrambi i casi viene individuata una dipendenza che, per il cacciatore del passato, è definita fisiologica, perché andava a caccia “spinto dai sistemi emotivi di base, per scopi di grande valore biologico: procurare il cibo a sé e ai suoi” a differenza del cacciatore contemporaneo che avrebbe sviluppato una dipendenza patologica, caratterizzata dall’andare “a caccia spinto dagli identici sistemi emotivi di base, ma il suo comportamento ha perso l’originario valore biologico di assicurare la sopravvivenza a sé ed alla sua specie”. L’analisi si spinge ancora più a fondo, individuando come i meccanismi psichici alla base del desiderio di cacciare siano di tipo primario, “che avvengono a un livello cerebrale arcaico, del tutto distinto dai fattori culturali che appartengono ai processi terziari, mediati dalla corteccia cerebrale”.
Quella che ne esce dall’articolo, è la figura di un cacciatore sostanzialmente “addicted”, di un dipendente patologico da un’attività che oggi non ha alcun senso di esistere. “Chi ama le armi, potrà usarle come il sottoscritto ai poligoni di tiro – conclude l’autore – chi soffrisse per il bisogno insopprimibile (“craving”) di sparare ai selvatici, potrebbe usufruire, come per il gioco d’azzardo, di idonee terapie presso i Servizi pubblici per le dipendenze patologiche”.