Ancora una volta larghe zone del nostro Paese si trovano ad affrontare le pesanti conseguenze di un dissesto idrogeologico che ha portato lutti e distruzione.
La Federazione Italiana della Caccia è vicina a quanti sono stati colpiti dalle inondazioni, anche con la concreta presenza dei suoi tanti tesserati impegnati, come tantissimi altri cacciatori di tutte le associazioni, nelle squadre della protezione civile o che a titolo personale sono andati a prestare soccorso e aiuto dove era più necessario e ai quali va il nostro più sincero ringraziamento.
Le immagini delle devastazioni causate dalle intense piogge di questi giorni non possono non indurre però anche riflessioni sulla necessità di un diverso rapporto con il territorio.A questo proposito ci sembra interessante quanto scritto da Carlo Petrini, che richiama la visione di una ruralità più corretta e rispettosa dell’ambiente proprio perché vissuto e gestito dall’uomo e non eccessivamente sfruttato o, all’opposto, ingessato e intoccabile.
Di seguito pubblichiamo l’articolo di Petrini dalla Repubblica del 15 novembre 2012 ripreso dal sito Slow Food:
“Non ci vuole un genio per capire certe cause e non ci vorrebbe neanche un genio della politica per cercare di correre subito ai ripari. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio italiano dovrebbe essere la priorità di qualsiasi Governo, dovrebbe essere in qualsiasi programma elettorale, dovrebbe mettere d’accordo tutte le forze politiche. E invece no. Ogni autunno bisogna ricordare, di fronte a questi drammi, chi “portava l’acqua a spasso”.
Parlare di civiltà agricola del passato non è irrispettoso, non è un caso o un esercizio trito da maniaci delle contadinerie. Studi storici ci spiegano che su un territorio geomorfologicamente fragile come il nostro abbiamo iniziato un paio di secoli fa con il disboscamento a tappeto delle aree collinari e montane. Questo ha peggiorato molto la sicurezza dei terreni e reso più pericoloso il deflusso delle acque, ma quanto meno si era fatto spazio a un’agricoltura che era pur costretta a prendersi cura del territorio in maniera capillare e sistematica. Il tutto su base locale ma con una sapienza che quando in casi eccezionali doveva lamentare danni e perdite, almeno poteva inveire a ragione contro la malasorte, perché si era fatto tutto il possibile per prevenire.
Poi, con l’avvento dell’era industriale, l’inizio dell’irreparabile: prima l’abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l’agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate “arretrate” hanno visto arrivare il deserto umano, l’incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi.
Non smetto di ricordare ciò che mi ha detto una volta Tonino Guerra: «L’Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c’era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l’abitavano: i contadini». Con l’abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un’altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare “naturali”.
Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com’è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent’anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni.
Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal Ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo Governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.
Continuando con la storia, invece, l’abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un’agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c’è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.
Quasi nessuno si prende più cura dell’Italia. Legambiente ha stimato nel 2010 che l’82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, in cinque Regioni siamo al 100%. Nemmeno lo Stato, che potrebbe fare tanto, fa il suo mentre insegue testardamente “grandi opere” che ormai suonano sempre più come una presa in giro. Non si può non urlare la richiesta di un piano serio e moderno di messa in sicurezza del territorio nazionale. Piano che agisca a livello locale non soltanto con opere minime e semplici (ma queste sì, grandi) di cura e manutenzione: anche attraverso la tutela dei suoli fertili e la rimessa in produzione di quelli compromessi (con forme di neo-agricoltura per l’industria, come coltivazioni per bioplastica in terreni inquinati).
Oppure attraverso gli incentivi per un ritorno alla campagna da parte delle nuove generazioni e un premio a chi, attraverso l’attività agricola, serve ancora la Nazione con quei lavori che sanno “portare a spasso l’acqua”. Questa è vera modernità, questo è ciò di cui si parla veramente quando si parla di paesaggio, di agricoltura sostenibile o di economia locale. Non è poesia o nostalgia.
Sono cose che genererebbero più occupazione e PIL di quanto non ne facciano i disastri. Perché è terribile dirlo – e non è un caso che ci sia chi è stato colto a gioire e ridere per un terremoto – ma un disastro “innaturale” fa quote di PIL attraverso la ricostruzione o magari anche con forme di assicurazione privata che ora, guarda caso, alcuni vorrebbero obbligatorie per tutti”.
20 novembre 2012
Federcaccia