Una lunga e costosa recinzione
Nel mese di gennaio 2022 in un territorio, già allora abbastanza esteso, ricompreso tra le Province di Genova e di Alessandria si è scoperto un focolaio di Peste Suina Africana in danno della popolazione di cinghiali presenti sul territorio. La porzione di territorio inizialmente interessata dalla PSA era rappresentata quasi totalmente dal profilo appenninico ligure-piemontese caratterizzato da montagne impervie e da boschi ormai abbandonati e quasi impenetrabili. Il mondo venatorio, dopo aver appreso le prime rudimentali nozioni circa la nuova e sconosciuta malattia, ha prontamente compreso che le modalità di intervento finalizzate al depopolamento del cinghiale per l’eradicazione della malattia, già sperimentate in altri contesti europei, sarebbero state scarsamente efficaci su tale territorio. Purtroppo, ma anche comprensibilmente, la prima struttura commissariale correttamente nominata dal Governo per affrontare questa emergenza, non ha ascoltato le perplessità palesate dal mondo venatorio, tentando di contenere la PSA con i metodi già sperimentati in contesti territoriali esteri profondamente diversi. Esempio emblematico la realizzazione di una lunghissima e costosissima recinzione, la quale ovviamente, stante la geografia complessa dell’ambiente interessato, non è riuscita in alcun modo a contenere la malattia e, se non è stata nociva, certamente è stata inutile.
Inversione di tendenza
In questa prima fase le richieste del mondo venatorio volte a contenere la popolazione di cinghiali attraverso una campagna mirata, ma importante di abbattimenti non sono state ascoltate. La seconda struttura commissariale, con una inversione di tendenza importante, ha compreso l’utilità di un piano di depopolamento diffuso tramite il coinvolgimento diretto dei cacciatori. Il mondo venatorio, dopo i primi tentennamenti, si è messo completamente a disposizione della struttura commissariale, svolgendo nel modo più efficace possibile l’attività di depopolamento. Attività che, nel caso ligure, ha consentito di fermare l’avanzata dell’epidemia nella parte a ponente della Regione (Provincia di Savona) e di contenerla nella parte di levante (Provincia di La Spezia). Purtroppo in tale seconda realtà l’assoluto immobilismo della confinante Regione Emilia-Romagna ha fatto sì che la malattia sia rientrata in Provincia di La Spezia da tale confine scarsamente presidiato.
Situazione attuale
Il mondo venatorio ligure, dopo aver svolto tutti i compiti allo stesso assegnati e cioè l’attività di monitoraggio del territorio per la ricerca delle carcasse, la partecipazione ai corsi di biosicurezza, la realizzazione delle opere per predisporre le “case di caccia” allo stoccaggio degli animali abbattuti, la partecipazione ad innumerevoli interventi di depopolamento della specie cinghiale con conferimento delle spoglie alla distruzione, inizia a manifestare un po’ di stanchezza e di perplessità. Le ragioni sono molteplici:
– la constatazione che la PSA nonostante tali importanti sforzi ha continuato a progredire sul territorio;
– la presenza di altri focolai (Lazio, Campania, Calabria, Basilicata) certamente non collegati a quello locale, ma di chiara origine antropica (rifiuti alimentari, importazioni di derrate non controllate e altro);
– la mancanza di contributi economici finalizzati ad incentivare le attività di depopolamento (diversamente da altre realtà di province confinanti dove sono stati elargiti contributi in proporzione ai capi abbattuti);
– la difficoltà nelle operazioni di rimozione dei capi abbattuti in territori impervi senza alcuna contropartita, essendo gli stessi, in zona di infezione II, tutti destinati alla distruzione;
– la mancanza di prospettive per il futuro.
Questa disaffezione è dimostrata dal dato, oltremodo preoccupante, che solo nell’ATC 1 in Provincia di Genova, nella stagione venatoria 2023-24, abbiamo avuto un calo di oltre mille iscritti tutti interessati esclusivamente alla caccia al cinghiale. Inoltre è necessario rappresentare che attualmente la zona di infezione II, copre tutta la Provincia di Genova e parte della Provincia di Savona per una estensione territoriale complessiva di oltre 250.000 ettari che, se sommati a quelli della vicina Provincia di Alessandria, raggiungono quasi i 400.000, ai quali, se si aggiungono anche quelli, più recenti, della Lombardia, dell’Emila Romagna e oramai anche della Toscana con la Provincia di Massa si ottiene una superficie enorme senza soluzione di continuità. In tale immenso territorio, nel quale la PSA ha mietuto molte vittime, ma non ha eradicato la specie cinghiale, lo sforzo venatorio per eliminare i superstiti ed eradicare la PSA è enormemente più gravoso e il calo costante di cacciatori interessati non lo rende molto efficace. Parimenti, in alcune zone ove la PSA è passata per prima, circa due anni fa e dove la popolazione di cinghiali sembrava scomparsa, si sta assistendo ad un naturale ripopolamento per osmosi da altri territori confinanti, dove la PSA non è passata, con il rischio che la popolazione si riassesti e si riprenda numericamente ricolonizzando il territorio.
La fiducia del mondo venatgorio
In tale preoccupante scenario si ritiene che sia essenziale invertire la tendenza e bloccare la disaffezione dei cacciatori poiché in caso contrario rischieremmo di dover affrontare una battaglia senza truppe. Sicuramente le previsioni di contributi per incentivare le attività di prelievo potrebbero essere utili, ma soprattutto per recuperare la fiducia del mondo venatorio sarebbe necessario prevedere l’autoconsumo degli animali abbattuti anche in zona di infezione II. Ovviamente allorquando si parla di autoconsumo è implicito che questo possa essere preso in considerazione solo con il rispetto di tutti i precetti di biosicurezza necessari e cioè sistemazione dei capi abbattuti in cella frigorifera, prelievo di campioni per le necessarie analisi, attesa degli esiti analitici, tracciatura degli animali e delle carni, consumo esclusivo all’interno della zona di infezione II. Oggi le squadre della provincia di Genova e di Savona sono in condizione di fare tutto ciò, in quanto si sono dotate delle strutture per stoccare gli animali, hanno partecipato ai corsi e imparato ad eseguire i prelievi dei campioni da avviare alle analisi, provvedono alla fascettatura ed alla tracciatura delle carni. Molte di loro hanno svolto tale attività senza alcun inconveniente per oltre un anno quando i loro territori di caccia erano ancora in zona di infezione I e l’autoconsumo era consentito.
Considerazioni conclusive
L’enorme dimensione, come sopra ricordato, della zona di infezione II consentirebbe di consumare tali carni al suo interno senza alcun rischio di movimentazione all’esterno, ma se fosse ritenuto utile i cacciatori potrebbero sottoscrivere una autocertificazione con la quale si potrebbero impegnare a consumare tali carni solo ed esclusivamente all’interno di tale zona, previa obbligatoria cottura. Si potrebbe anche prevedere di limitare l’autoconsumo nelle zone di infezione II più antiche e più interne rispetto all’enorme areale ormai compromesso, laddove la malattia ormai è presente da quasi due anni. La caccia al cinghiale come è stata svolta per oltre cinquant’anni non ci sarà più per molto tempo o forse mai e i cacciatori ne sono consapevoli, ma per continuare a motivarli nell’attività di depopolamento bisogna coinvolger loro in un’attività che sia il più possibile simile a quello che gli è sempre piaciuto fare, cioè la caccia e l’autoconsumo ne è una parte essenziale. Si confida pertanto che tale richiesta venga accolta poiché, in caso contrario, temo che molti cacciatori smetteranno e il presidio del territorio non potrà più essere garantito, con il concreto rischio che, allorquando la popolazione di cinghiali comincerà a riconsolidarsi (come è avvenuto in tutti gli altri stati europei interessati dalla PSA), non avremo più nessuno che li possa contenere.