La contabilità del Capitale Naturale è un esercizio molto complesso, ancora in fase di perfezionamento, ma importante poiché è finalizzato a misurare le variazioni del Capitale Naturale nell’Unione Europea e nei singoli Stati membri e a integrare nei sistemi contabili e di rendicontazione internazionale il valore economico dei Servizi Ecosistemici offerti di beni naturali alle nostre Comunità. Il IV Rapporto sul Capitale Naturale dell’Italia, presentato lo scorso 22 maggio, è stato definito un “faro nella transizione ecologica”, che avrà il compito di guidare la strategia italiana nella gestione del Recovery Plan.
Il Comitato Capitale Naturale che lo ha predisposto ha dichiarato anche che “la nostra deve essere la prima generazione capace di lasciare i sistemi naturali e la biodiversità dell’Italia in uno stato migliore di quello che abbiamo ereditato”, individuando come baseline il 2020 e dandosi l’obiettivo ambiziosissimo di ottenere, entro il 2030, il blocco della perdita di biodiversità, l’inversione dei processi del suo degrado e i primi risultati di una grande “opera pubblica” di ripristino degli ambienti terrestri e marini. Una visione indubbiamente auspicabile, ma certamente assai difficoltosa e complessa da realizzare. Se guardiamo ai risultati ottenuti dalla Strategia nazionale per la Biodiversità nell’ultimo decennio, emerge infatti un quadro purtroppo preoccupante, con il mancato raggiungimento di gran parte degli obiettivi definiti dalle strategie e dalle direttive comunitarie.
D’altra parte si deve constatare che anche a livello internazionale nessuno dei cosiddetti Aichi Targets della decennale Strategia mondiale della biodiversità 2011-2020, approvati nella 10a Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione internazionale sulla diversità biologica, tenutasi a Nagoya-Aichi in Giappone nel 2010, è stato pienamente raggiunto (secondo l’OCSE per una sostanziale carenza di finanziamenti) e il quadro dello stato della biodiversità planetaria è andato ulteriormente peggiorando. In ogni caso il quadro di partenza nel nostro Paese, delineato dalla Lista Rossa degli ecosistemi, individua ben 29 ecosistemi terrestri a rischio elevato su 85 (34%). In negativo si segnala che il Rapporto identifica nelle aree pianeggianti dal Nord Italia fino alla Puglia le zone più degradate per quanto riguarda la conservazione degli ecosistemi. Infatti, nell’arco di circa un secolo l’ampiezza delle foreste nel nostro Paese è praticamente raddoppiata, grazie all’espansione del bosco spesso a discapito delle aree agricole e della fauna legata agli ambienti aperti, tra cui la coturnice, la starna, la pernice rossa, la quaglia, l’allodola e numerose altre specie di piccoli passeriformi.
Fermare questo trend complessivo sarà certamente una delle sfide più difficili da affrontare. Tuttavia, il Comitato Capitale Naturale ritiene che il nostro PNRR (piano nazionale di ripresa e resilienza) rappresenti una straordinaria occasione anche per un cambio di rotta nel ripristino degli ecosistemi, terrestri e marini, che ovviamente sono alla base del benessere e della salute di noi tutti. Questo corrisponderebbe anche all’impegno delineato dal Decennio delle Nazioni Unite sull’Ecosystem Restoration 2021-2030 volto a fronteggiare le problematiche di adattamento ai cambiamenti climatici e i rischi che rendono più vulnerabili i nostri sistemi socio-ecologici. Per Federcaccia, nel Rapporto si notano tuttavia alcune altre criticità. In merito all’identificazione degli ecosistemi degradati troviamo fuori luogo il riferimento all’epidemia Covid 19, che nel Rapporto è stata associata alle aree più compromesse, mentre il tasso d’incidenza dell’infezione è stato elevato anche in aree diverse, come la Valle d’Aosta e la Provincia di Bolzano (Dati ISTAT).
Inoltre, la scelta di utilizzare solo la classe degli uccelli come riferimento per la valorizzazione dei servizi ecosistemici risulta parziale e non è comunque stata eseguita in modo del tutto oggettivo. Per esempio, nella valorizzazione di questi servizi, si nota come non siano presi in considerazione i mammiferi. Escludendo questi e altri taxa (ad esempio gli insetti, che sono molto importanti per il servizio di impollinazione e sono da tempo in grave crisi proprio negli agro-ecosistemi, da cui le conseguenze anche sullo stato di conservazione degli uccelli), non si contabilizza né la quota del loro capitale naturale, né i numerosi servizi ecosistemici correlati, di estrema importanza.
In secondo luogo, un approccio più completo alla valorizzazione del Capitale Naturale implica di valutare sotto il profilo economico i servizi ecosistemici che coinvolgono anche l’attività venatoria e la gestione degli habitat e delle specie di fauna selvatica per fini venatori. In particolare (CICES V5.0) i servizi di: a) “Approvvigionamento” (“filiere” della carne di fauna selvatica), b) “Regolazione e mantenimento” (mantenimento e gestione di popolazioni e di habitat della fauna selvatica), c) “Culturali” (gradimento ottenuto dagli usi ricreativi-esperienziali delle specie di fauna selvatica e dalla natura, che comprendono appunto la caccia, assieme alla pesca, al birdwatching, al turismo naturalistico, ecc.). Il risultato di queste omissioni è quindi di una evidente sottostima del valore economico dei servizi ecosistemici nella loro valutazione e integrazione nei sistemi di contabilità del Capitale Naturale. Si spera che tale carenza possa essere superata nel prossimo futuro anche includendo specifiche professionalità nel “Comitato Capitale Naturale”. Infatti, la caccia sostenibile non solo è del tutto compatibile con le previsioni delle numerose Convenzioni e Direttive internazionali, ma è motore di investimenti ambientali, di miglioramento e ripristino degli habitat, di reintroduzione delle specie, di controllo delle specie problematiche e di quelle aliene (tra le principali cause di degrado della biodiversità), di vigilanza contro gli illeciti (altro importante fattore di minaccia) e di volontariato gratuito.
Nondimeno i cacciatori versano tasse regionali e nazionali molto cospicue che dovrebbero essere espressamente reinvestite in beni naturali. Nel Rapporto il tema degli uccelli non affronta minimamente le azioni di conservazione e di ricerca intraprese dal mondo dei cacciatori, ad esempio con i ripristini ambientali di aree umide, che ammontano a non meno di 24.000 ettari in uno studio di sole 4 regioni, e le azioni di miglioramento ambientale realizzate dagli Ambiti Territoriali di Caccia, Comprensori Alpini e Aziende Faunistico Venatorie e gli studi pubblicati su riviste scientifiche riconosciute. Per quanto riguarda la valutazione dello stato di conservazione delle singole specie di uccelli nidificanti in Italia, il IV Rapporto lo considera soddisfacente quando i dati relativi alla popolazione mostrano una prospettiva di persistenza a lungo termine, la sua abbondanza e distribuzione risultano stabili o in incremento e gli habitat utilizzati dalla specie sono considerati sufficienti in quanto ad estensione e a qualità per garantirne la persistenza sul lungo periodo.
Seguendo i principi della Direttiva Habitat e applicando l’indice FRV (valore di riferimento favorevole) si applicano criteri più restrittivi rispetto al concetto di rischio di estinzione definito dalla Lista rossa IUCN. Infatti, anche specie definite dalla Lista rossa a minor rischio “Least concern” (LC) sono in tal modo considerate in uno stato di conservazione sfavorevole. Non sembra essere considerata in questa analisi l’interazione fra specie, che determina incrementi e decrementi ciclici fra le diverse comunità ornitiche. Vi è infine da chiedersi quale sia la reale congruenza del quadro espresso dal IV Rapporto, visto che i dati di popolazione e gli areali di riferimento per la valutazione dello status degli uccelli nidificanti sono quelli del vecchio Progetto Atlante Italiano risalente addirittura al 1994.