Digiscoping – Seduti al riparo di un grande larice, ci invade un profondo senso di pace. Stiamo ascoltando la voce dei cervi. Nel bosco c’è un silenzio quasi irreale, che è stato rotto, per un momento, soltanto dalla nostra presenza. Il bosco riprende subito la propria vita. Sentiamo i primi bramiti. La mente libera da ogni altro pensiero. Poco distante, un sottile rumore prende corpo: sappiamo bene cosa significa questo rumore: al limite del bosco, un capriolo esce in pastura. Le narici larghe aperte ad ogni alito di vento, le orecchie mobili spalancate che interrogano lo spazio, due occhi da antilope pieni di mistero e di profonda dolcezza. Non è in allarme, perché nulla intorno a lui suona di pericolo e il nostro odore non può giungere al suo olfatto: è la sua innata prudenza, che ha bisogno di segni rassicuranti per iniziare a brucare l’erba saporita. Immersi nei pensieri e nell’ascolto dei bramiti, non ci accorgiamo quasi più dello scorgere del tempo: l’occhio non va all’orologio, ma al sole che comincia a lambire il versante opposto, tingendo le cime di rosa. Ci attende ancora un’ora di ombra, in queste arene dei cervi, ma aspetteremo senza problemi il momento in cui il sole inizierà a filtrare tra larici e abeti, in fuggevoli giochi di luce. Un’attesa, tuttavia, piena di suggestioni e di magia. Noi siamo qui per questo. Vogliamo “parlare” con i cervi. Ci sono due appuntamenti, per un cacciatore, cui non si può assolutamente arrivare in ritardo: il matrimonio e il bramito dei cervi. Purtroppo non sempre i calendari venatori nostrani coincidono con il momento forte del bramito (come accade in altre parti d’Europa), ma ciò non condiziona la voglia di parlare con i cervi. Il bramito è come un gioco d’azzardo: non si può mai prevedere il giorno esatto in cui inizierà; troppo numerose sono le variabili in gioco. Ma va bene lo stesso: se, per legge, la carabina dovrà tacere – per ora -, noi rispetteremo comunque l’appuntamento. Il lungo e la fotocamera sostituiranno la carabina, fino all’apertura.
L’AVVICINAMENTO.
Lontano, più in alto, un suono cupo, roco – assolutamente inconfondibile – risuona nel bosco. È il momento di muovere verso di Lui. Un po’ infreddoliti, sistemiamo lo zaino sulle spalle e iniziamo ad accorciare il più possibile la distanza, ora lunga e tortuosa, fra noi e quel “rumore”. All’inizio, camminiamo spediti, salendo lungo il crinale, e ci fermiamo soltanto per localizzare, in modo sempre più preciso, la fonte del suono che si ripete ad intervalli abbastanza regolari. Quando questo diventa più forte e più preciso, cerchiamo di alleggerire il passo: ogni rumore (sbagliato) può vanificare l’avvicinamento. Circa i rumori, sappiamo bene che dobbiamo immedesimarci nella situazione: ci sono suoni “concessi”, anzi graditi, che non fanno fuggire il cervo e ce no sono altri che lo mettono in fuga anche se questo è il momento dell’anno in cui è meno diffidente. Il rumore del bastone battuto a terra o fra i rami – per esempio – attira il maschio dominante, che crede di essere in presenza di u rivale da scacciare; la stessa cosa vale per un “bramito” riprodotto dalla nostra voce con un richiamo o un corno di bue. Ben diversamente, invece, stanno le cose se il nostro bastone ha il puntale di metallo che batte sulle pietre, oppure se nel bosco risuonano voci umane, o qualsiasi suono metallico. Spegnere il cellulare è d’obbligo. La distanza – ora – si è ridotta. Le nostre soste, si fanno più lunghe, in attesa di una “risposta” e di una conferma dall’altra parte. Evidenti, fresche, sul terreno le tracce di grandi zoccoli. Come altre volte, ripetiamo un gioco che ci fa immedesimare nella situazione: mettiamo, cioè gli scarponi esattamente nelle orme lasciate dal cervo. Seguendo gli stessi sentieri e gli stessi passaggi che ci hanno preceduto. Nei passaggi più complicati, ci stupiamo – ogni volta – come grandi e ingombranti palchi possano perforare una boscaglia così intricata. È straordinario constatare come, nella stessa orma ci siano molte zampe. Numerosi animali, una sola pista. Zampe nelle stesse orme dell’animale che precede. Finalmente, soltanto una piccola altura ci separa dal bramito del cervo. È il momento più delicato. Fino ad ora, non abbiamo sbagliato nulla, ma adesso che, pur non vedendo ancora il cervo, ne ascoltiamo – forte e nitido – il roco bramito, ogni errore si paga. Immobili sui nostri passi, studiamo il terreno circostante. Occorre trovare la via più comoda, più riparata e soprattutto più silenziosa per “scollettare” senza farci vedere, senza farci sentire. Cerchiamo di avanzare – al rallentatore – nei momenti del bramito, che può creare una certa copertura, pur se sappiamo bene che il rischio maggiore sono le femmine dell’harem, il cui senso di prudenza è più sviluppato nel periodo del bramito. Il nostro cuore batte all’impazzata, e temiamo che il cervo lo senta.
Avvicinando il cervo dal basso, abbiamo però un vantaggio: le corone del palco, che stanno ben sopra gli occhi dell’animale, si materializzano nel bosco assai prima che Lui ci veda; tenendo il terreno tra noi e i suoi occhi, possiamo localizzare il punto preciso dove si trova il cervo. Colmata così questa breve, ma interminabile distanza, riusciamo a contare le punte in corona. Il movimento ritmico del palco durante ogni bramito rappresenta per noi il primo, emozionante impatto con il maestoso ungulato. È il coronamento di un avvicinamento appassionante, che ci proietta quasi fuori dal mondo, nel silenzio e nella pace profonda del bosco. In modo lento, studiato, maestoso, il cervo ruota leggermente la testa interrogando lo spazio intorno a lui. Ogni sua cura non è difensiva, in questi momenti: nessun maschio deve avvicinare l’harem. A intervalli regolari, portando la corona fin quasi sulla schiena, la bocca aperta e protesa in avanti, il collo teso nello sforzo, il cervo emette il suo grido di amore e dominanza. Profondo, forte, cupo, roco, inconfondibile. Il cervo bramisce il proprio bisogno di grandi spazi, il proprio dominio sulle femmine e il suo inderogabile possesso del territorio. Bramire – per il cervo – è attirare, scacciare e provocare nello stesso tempo; prima, durante e dopo la conquista, la sera, la notte, il mattino e talvolta nella parte centrale della giornata, nel momento dei propri anni migliori. Dopo aver scorto le corna, ma non ancora l’animale, ci dobbiamo fermare, immobili come statue; il gioco è fatto e lo spettacolo che la Natura ci offre in questi momenti è davvero straordinario. Tutto ciò, a volte, può durare anche molto a lungo: la difesa e la prudenza sono armi meno importanti per il cervo in bramito. La sua assoluta priorità non è quella del cibo, ora, ma quella di tener ben radunate le femmine, di non disperderle e di allontanare in modo perentorio e violento i giovani o chiunque intenda contendergli questo dominio. Null’altro conta – per il padrone dell’harem – durante il bramito.
Trascorrono ore, giorni, settimane per questo “lavoro”. Il boss, durante i brevi trasferimenti, cammina sempre in coda, chiude regolarmente la fila, “conta” e controlla il numero delle femmine più volte. Se qualche femmina si attarda troppo, o si “distrae”, viene subito richiamata all’ordine, “ripescata” con forti rimproveri. Ogni tanto, la calma del bosco è rotta dalle fragorose “volate” verso qualche maschio non ancora accasato, che cerca di approfittare di ogni sbandamento delle femmine. Non si tratta quasi mai di scontri violenti, mai mortai, ma soltanto di precisi rituali d’imposizione; molto spesso, infatti, questi scontri si risolvono ancor prima di iniziare: il maschio dominante impone la sua forza anche solo con il bramito o con il proprio peso e sviluppo del palco; di fronte a tale dimostrazione di forza, i maschi più deboli e/o giovani preferiscono abbandonare (momentaneamente) l’arena, in attesa di ritornavi in momenti più favorevoli. In uno di questi brevi e violenti scoppi d’impeto, un filo d’aria ci porta, nitido, quello che, nei nostri pensieri solitari, abbiamo battezzato “odore di cervo”. Acre, forte e che non possiamo paragonare a nessuna altra emanazione olfattiva: odore di cervo, e basta. Giunge la sera. Dopo queste emozioni, che abbiamo fermato nella testa e/o in un file fotografico, scendiamo. Gli alberi salgono verso di noi, come una mano che si tende. Dal bosco, emergono il campanile del paese, i campi, le case, l’odore di fumo e quella luce che si accende lontano, come se ci chiamasse. Non importa se abbiamo con noi la spoglia del cervo o la sua immagine catturata per sempre nella scheda di memoria della fotocamera. Le emozioni sono state le stesse, sempre. Abbiamo “parlato” con Lui, e questo ci basta. Non dobbiamo stupirci se, ritornati a casa, piombiamo nel silenzio. L’eccitazione degli incontri fatti, le emozioni tuttora calde e vive sono ancora dentro di noi. La maestosità dei cervi è un’immagine che rimane a lungo nella nostra mente. Persi nei silenzi e nei suoni della Natura, siamo penetrati e ci siamo immersi profondamente nelle sorgenti alle fonti della condizione umana. Ritorniamo da lontano. Lasciateci il tempo di arrivare.