Il cuore di un camoscio può arrivare fino a 600 battiti al minuto. I suoi muscoli, potenti ma fluidi, sembrano fatti apposta per la corsa e per le scalate. Solidamente piantato su zampe robuste e zoccoli forti è un vero miracolo di adattamento al severo habitat della montagna. Teso come un arco, vibrante di una grande riserva di potenza a disposizione, egli evoca la velocità pura e la forza, anche quando sta a riposo. Di fronte alle sue partenze folgoranti dalla neve, ai suoi arresti frenati sui quattro zoccoli, ai suoi salti dove sembra appena sfiorare la terra, e soprattutto di fronte all’incomparabile eleganza del suo galoppo, si è tentati di parlare di leggerezza e rapidità. L’eleganza e la forza nascono infatti dall’accordo fra le linee e il volume: da tutto questo risulta un’armonia profonda fra le possibilità del camoscio e le sue esigenze di vita. Lo sanno bene cacciatori e fotografi naturalistici, che non avvicinano mai un camoscio con il vento alle proprie spalle e non muovono neppure un sasso con gli scarponi; meno ‘problemi’ di strategia, invece, per i digiscopers, che possono stare ‘fuori scena’ e catturare buone immagini fotografiche anche a lunga distanza. Ancora immobile fino al momento in cui la distanza di fuga non viene infranta, infatti, il camoscio non esita a mettersi in movimento, con una fuga leggera, che si ferma soltanto per un breve stop – immancabile – per controllare la situazione. Dopo, lo possiamo vedere impegnato al pieno galoppo della paura. Un fuoco d’artificio.
Al digiscoper di montagna, spetta il non facile compito di cogliere tutte queste cose. E, soprattutto, il naso umido, gli occhi, gli anelli delle corna permanenti e le espressioni di questo straordinario ungulato. Ma non solo: in molte occasioni, il digisoping ci permette anche di contare gli anni del camoscio – in vita – talora senza neppure spingere lo zoom del lungo ai massimi valori.
Nel corso dei nostri ultimi work-shop ai camosci, abbiamo cercato di catturare in un file queste magìe. Lo abbiamo fatto con il lungo Swarovski Optik ATX95, portato a uno zoom mai superiore ai 40x e abbinato volta per volta (tramite il TLSAPO30) a una reflex DX e a una Mirror Less corredata da un grandangolo fisso molto luminoso. La prima impressione, senza pagelle ma in semplici test compatibili è che le due diverse fotocamere offrono più o meno gli stessi risultati. Ciò appare certamente un dato importante, che conferma che – in Digiscoping come con i supertele – la differenza qualitativa dipende quasi esclusivamente dalla ‘lente’ e non dal corpo della fotocamera utilizzata. Entrambe le fotocamere lavorano in RAW/NEF e hanno un rapporto tempi esposizione/diaframma molto simile. La vera, fondamentale, differenza è nella fase operativa: più versatile e ‘svelta’ la Mirror Less; meno veloce e immediata la reflex. La MirroLess, che mantiene il proprio obiettivo, può sfruttare gli automatismi e utilizza una specie di Autofocus – sulla seconda lente del lungo -; la reflex deve lavorare in Manuale sia per quanto riguarda i tempi d’esposizione (il diaframma è fisso, non regolabile), sia per la messa a fuoco, da fare sul lungo e da controllare, anche con zoom virtuale, nel mirino o in LiveVIew.
La scelta, quindi, è assolutamente personale. Certo: abbiamo realizzato ottime immagini con entrambe le fotocamere, e la Mirror ha risposto con un’adattabilità oltre ogni previsione, ma ci siamo resi conto che a chi guarda una fotografia di un camoscio, poco interessa il sistema fotografico e/o la lente che l’abbia creata. La cosa più importante, infatti, è che la foto “parli”. A prescindere dalle lunghezze focali e dai crop, è fondamentale cogliere gli occhi, il naso umido, l’espressione di questo selvatico alpino. In questo modo, l’unica differenza fra il telescopio e il super-tele, non è tanto l’ingrandimento del soggetto nell’immagine finale, bensì la profondità di campo: ampia con il supertele (anche ai diaframmi più aperti), offre sfondi leggibili; ridottissima con il diaframma fisso del telescopio, invece, consente quel grande effetto di isolare il soggetto da uno sfondo volutamente poco leggibile. Certo: in digiscoping, la messa a fuoco deve essere estremamente precisa (talora, con soggetto frontale, fino ad avere a fuoco il muso e un po’ sfocato il dorso), ma poter stare fuori scena, a distanza, ed avere soggetti tranquilli, frontali e non in fuga, rappresenta per noi un “vantaggio” irrinunciabile con gli animali selvatici.
Sulle strategie fotografiche con i camosci, c’è poco da dire ai cacciatori: queste sono praticamente le stesse da affrontare a caccia (e, forse, è più difficile realizzare una buona foto, piuttosto che un tiro perfetto). Le “follie” degli amori, fra la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno, sono il momento migliore con i camosci; larici gialli e pochi contrasti tra le alte e le basse luci agevolano l’esposizione. In inverno e all’inizio dell’anno, i camosci vestono ancora il caldo ed elegante mantello scuro invernale. Con l’arrivo della neve, i grandi branchi, formatisi per la stagione degli amori, iniziano a sciogliersi. I maschi non si battono più tra loro. I giovani, non più turbati dall’indifferenza della madre durante gli amori, riguadagnano il loro posto al seguito della protezione materna. L’incontro più frequente, ora, è di piccoli branchetti di femmine e giovani camosci, con la totale esclusione dei maschi adulti. Questi hanno fatto il loro dovere riproduttivo e preferiscono starsene in pace, da qualche altra parte. Pochi branchi e qualche capo isolato si ostinano a restare fra gli alpeggi in quota, fedeli alla loro rimessa fra le rocce più inaccessibili, o in prossimità delle creste da cui il vento ghiacciato spazza la neve e scopre l’erba gelata che scrocchia sotto i loro denti. Febbraio è il mese più terribile, in montagna. Il mese in cui ogni speranza sembra aver abbandonato la terra; il mese in cui la fame grida troppo in alto, verso la valle, verso le zone che limitano i campi degli uomini, con l’abbominevole odore dei camini fumanti e delle concimaie che traspirano sotto il freddo, davanti alle baite.
Dal punto di vista fotografico, la presenza di neve (che fa da sfondo a selvatici dal manto molto scuro) richiede un’esposizione spot, che rilevi selettivamente la luce che proviene dal camoscio trascurando le alte luci della neve. Si può fare – sia con la reflex che con la Mirror – alzando i tempi d’esposizione di almeno due stop e ‘ignorando’ la forte luminosità della coltre bianca. A marzo, i giorni cominciano un po’ ad allungarsi. Ma il freddo e il gelo la fanno ancora da padroni. In alcune giornate, però, un vago sentore di primavera, si diffonde nell’aria: sono quelle rare giornate in cui il cielo basso non grava più con il suo peso sulla terra morta e la speranza si risveglia nel cuore e nel corpo degli animali liberi. In qualche notte, poi, ha piovuto nella foresta e sugli alpeggi: ciò è sufficiente per iniziare ad allagare l’inverno. Ogni giorno, ora, e ogni giorno di più, la neve inizia a sciogliersi. Gli alberi della foresta iniziano a rivestirsi di foglie e la prima erba verde riappare sul terreno: questo è un richiamo troppo forte per i camosci stremati dal lungo inverno. Sta per arrivare la primavera, la tanto attesa primavera. In questo sentore di erba nuova, che gli animali “sentono” forse ancor prima di vedere, i camosci non esitano a buttarsi verso valle. Il richiamo dell’erba novella li fa più coraggiosi. Per i digiscopers questo periodo è sicuramente molto favorevole. L’esperienza, poi, insegna ad animali e uomini a frequentare con assiduità tutti i versanti a sud, dove il sole ogni giorno più caldo scioglie prima la neve. In questi versanti, esistono sempre radure dove l’esposizione al sole dura fin quasi al tramonto. Non è difficile localizzare queste zone precise: l’incontro con gli animali è assicurato, anche quando tutto intorno la neve domina il panorama. Buona luce a tutti!