Digiscoping: Nella mia attività di fotografo ho da sempre avvertito la necessità, accompagnata da una buona dose di curiosità, di esplorare mondi a me estranei o quantomeno affascinanti.
di Stefano Laboragine
Ma mai, sino ad oggi, mi era venuto in mente di documentare una battuta di caccia al cinghiale. Così, ho la fortuna di essere invitato con la mia macchina fotografica da Andrea Tamarri: mente organizzativa della Squadra dei cinghialai dell’Alta Val Savena. Il luogo di ritrovo, prima di pianificare la battuta, è a Castel dell’Alpi, sull’appennino toscoemiliano, località Cà Borelli. Quando arriviamo, il sole ha albeggiato da poco e tra i rami di faggio, sono ancora conservati i primi colori dell’autunno. Appena arrivato, tra gli sguardi curiosi per il mio volto estraneo e per la mia evidente estraneità all’arte venatoria, avverto subito una piacevole umanità: volti giovani e visi schietti di uomini che hanno esperienza e conoscenza delle valli circostanti. Diverse generazioni unite nella condivisione di una passione: il cinghiale, prima ancora della caccia. Da queste parti la caccia va oltre la semplice visione convenzionale che molti hanno di questa attività. Qui assume un sapore antico, custodisce una tradizione che viene tramandata da padre in figlio, ha radici forti nel rispetto e nella cura del territorio e delle bestie che lo abitano.
Tra un caffè e qualche chiacchiera, si organizzano le “poste”. Vengo dotato di un gilet catarifrangente e di una ricetrasmittente che servirà a comunicare con i componenti della squadra. Non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte a una macchina organizzativa così perfetta e scrupolosa in tutti i suoi dettagli.
Il cielo è sereno e l’umore dei cacciatori è carico di ottimismo, lo si comprende dai sorrisi e dalle battute scherzose che si scambiano prima di inoltrarsi nel bosco. Appena entrati nell’area di caccia, l’espressioni di questi uomini si fa più seria e circospetta: «il cinghiale è un animale dalle straordinarie capacità intuitive e olfattive», mi bisbiglia a bassa voce uno di loro, invitandomi a seguire i suoi passi così da non far crepitare altri arbusti per terra. E’ un tragitto da percorrere in silenzio, l’unico modo di comunicare è il linguaggio dei segni che l’alfabeto dei cacciatori conosce. Si individuano le orme segnate al mattino dalla tracciatura e se ne cercano nuove. Andrea mi fa notare la base di un albero con il tronco ricoperto di fango secco: i cinghiali vanno a strofinarsi per rimuovere lo sporco dal pelo. Sono questi e altri ancora i segnali che l’occhio attento del cacciatore riesce a individuare. Bisogna fare attenzione a non emettere nessun rumore diverso da quelli della natura. La squadra si snellisce strada facendo, ognuno si posiziona nel luogo attribuitogli. Siamo rimasti in tre prima di chiudere la cerchiatura del perimetro della battuta. C’è un guado su un torrente da attraversare, poi un tratto ripido da arrampicare. Arrivati nel punto stabilito, iniziano a penetrarmi nel naso gli odori buoni del bosco: sono fragranze di felce, di legna bagnata, di foglie secche. Mi siedo su un sasso ammorbidito dal muschio, prendo la macchina fotografica e inizio a guardarmi attorno in cerca di dettagli che la bellezza del posto nasconde tra i rami; ma lo scatto che cerco oggi è lui: il cinghiale. Andrea, con cura, carica la carabina, sono passati più di venti minuti, e mi confida che quell’ “attesa” è già caccia. E’ proprio così: la caccia al cinghiale è una disciplina dove bisogna saper gestire il tempo pazientemente senza perdere concentrazione e soprattutto mantenendo sempre udito e vista coordinati tra loro. Dall’auricolare ci arrivano le prime segnalazioni da Daniele (Baldi): il capocaccia nonché il canaio che, assieme a Giovanni (Gitti) e a Luca (Santi), inizia a sollecitare la corsa e il fiuto dei cani. Si scambiano le posizioni e si dividono il territorio. Sono loro i “registi” che controllano e intuiscono le astute strategie di difesa degli animali.
E’ trascorsa da poco un’ora quando, dalla radio, ci giunge la voce affannata dei canai che ci avvertono di aver scovato un branco di una quindicina di cinghiali. I cani “battono a fermo” nelle vicinanze di uno spineto. Una sensazione di furore, a metà tra l’eccitazione e il timore, conquista anche di me, semplice spettatore, ma serve a comprendere quanta adrenalina possa generarsi in un cacciatore. Il latrato dei cani si fa più vicino, lo sento per metà nell’auricolare e per l’altra farsi eco nella valle. Si aggirano sulla spalla della montagna che abbiamo di fronte. Lo sguardo di Andrea si fa più attento e le sue mani impugnano l’arma pronta a puntare. Mi indica quello che, presumibilmente, dovrebbe essere il passaggio degli animali se dovessero deviare verso di noi. Punto l’obiettivo proprio in quel punto, quando vengo sorpreso dai primi spari che riecheggiano secchi per la valle. Dalla radio ci informano che ne hanno presi due. Seppur brevemente, percepisco, tra il fruscio della radio, uno scambio di complimenti e di scherni. La caccia prosegue assieme all’attesa. Sono trascorse molte ore da quando abbiamo raggiunto la postazione, eppure il tempo, quello appunto dell’attesa, non annoia, non angoscia, anzi, scorre veloce, tra un sobbalzo e un altro determinato dagli avvertimenti dei canai che ci indicano la loro posizione e la direzione della fuga dei cinghiali. Il sole ci gira attorno, udiamo altri spari, sembrano provenire dall’altro lato della montagna, ma il cinghiale che attendevo, non è an-cora entrato nel mio obiettivo. A valle ne hanno presi degli altri. Sono le quattro del pomeriggio, quando ci segnalano che i cani sono sfiniti e che l’ultimo branco avvistato è fuoriuscito dal cerchio delineato delle poste. La battuta può dirsi conclusa.
Con Andrea riprendiamo la strada del ritorno, la temperatura si è fatta più rigida ma in alcuni punti la terra è calda per il sole del mattino. Si organizza il recupero delle bestie. Una di loro è proprio su un lato del fiume. Vedo per la prima volta con i miei oc-chi un cinghiale. Non è di taglia grande, mi avvicino per osservarlo da vicino. Alle na-rici mi raggiunge il suo odore, è forte, sa di terra e sangue. “E’ l’odore della paura” penso. Riprendiamo il cammino e strada facendo ricostruiamo la squadra del mattino. Lungo il tragitto si commentano e si scambiano le esperienze del giorno, le opportunità perse e quelle andate a segno, si tracciano le strategie per la prossima volta. Ascolto i loro discorsi con interesse, comincio a comprendere meglio quello che si raccontano le loro voci. Si ritorna nuovamente al ritrovo accogliente del mattino, il sole si è nascosto da un po’ e la collina ha cambiato colori, qualche sigaretta e ancora qualche commento sulle sorti della giornata, prima di ristorarsi con un piatto di minestra calda. Avrei voluto portare a casa lo scatto che avevo immaginato, ma la fotografia è un po’ come la caccia: non sai mai cosa puoi incontrare. Oggi però, ho scoperto il fascino misterioso – e antico quanto l’uomo della caccia, ma soprattutto ho scoperto il mondo dei cacciatori che, a dispetto dei tanti luoghi comuni, è fatto di amore verso la natura e di lealtà sincera nei confronti dell’animale.