Torna l’appuntamento con l’arte firmato Diana: l’artista che vi proponiamo questa volta è Maurizio Martelli, Professore presso le migliori Accademie di Belle Arti d’Italia e appassionato di tutto ciò che è caccia, tradizione, natura e soprattutto colombaccio
Il paesaggio come meta dell’anima
Una chiacchierata come quelle che si fanno tra amici, questa la linea che abbiamo seguito nella stesura di questo lavoro. Parole e sentimenti autentici, lontani dai luoghi comuni e da giudizi di parte. Un’intervista vera, che travalica i concetti puramente artistici per affrontare l’argomento venatorio con onestà intellettuale e schiettezza, scevri da qualunque condizionamento.
Domanda: Come è nata la passione per la pittura?
Risposta: Come tutte le passioni è nata quasi per caso, avevo circa dieci anni e in una giornata di pioggia, mi misi a ricalcare sopra il vetro della finestra un disegno che mi piaceva.
D: E la passione per la caccia quando è nata?
R: La caccia è arrivata poco dopo. Lunghi pomeriggi a casa di un maresciallo in pensione a Pordenone. Caricava cartucce in mezzo a uccelli impagliati: un posto magico e misterioso. Poi camminate senza fine, pantaloni corti e gambe secche, sulle piane di Aviano, dietro ai cani che cacciavano e sembrava disegnassero col naso sul terreno. È stato come il suono delle campane: lo senti e non lo dimentichi più.
D: Possiamo dire che la caccia sia una forma d’arte?
R: «La nobile arte della caccia» la chiamavano. Per qualcosa l’avranno pur detto. Il trattato sulla falconeria di Federico II di Svevia o il «Libro di caccia» di Gaston de Foix colpiscono ancora e ti fanno capire quanta intelligenza e sapienza del fare ci fossero, e ci sono, a monte di una giornata di caccia, quanta conoscenza dei luoghi, degli strumenti, degli ausiliari, della selvaggina e della natura.
D: Quali sentimenti può suscitare la caccia agli occhi di un artista?
R: Forse hai maggiore sensibilità visiva, ma per il resto sei come tanti altri: anche tu preso da questa cosa misteriosa e poco spiegabile che viene da lontano. Tutto cominciò, probabilmente, quando l’uomo si eresse su due piedi e costruì uno strumento per colpire. Non puoi pretendere che tutti capiscano questa storia fatta di evasione nella natura, di lunghe e spesso inutili attese, di condivisione con pochi amici. Cominci a capire i venti, l’arrivo della pioggia, i misteriosi mutamenti di luce, quel «niente» che ti dice cosa potrà fare Madre Natura. Ma è inutile giocare agli ipocriti e buttarla solo in poesia, c’è anche dell’altro: il piacere di colpire un bersaglio tanto atteso e sperato. È un istinto atavico che ci è rimasto nel Dna dalla preistoria. Forse che non li vediamo i bambini che fanno gare a sassate contro un barattolo o una bottiglia? Tu tiri a qualcosa che vive, non a una bottiglia. Non noi meglio di loro. Se vuoi essere onesto fino in fondo, con un animalista non farai mai pari: tu uccidi, lui no. Ma anche loro, hanno mai sentito il lamento degli agnelli sui camion, in paziente attesa del turno davanti al mattatoio di Sassari, come è toccato tante volte a me? L’uscita non è facile, lo so. Facile criminalizzare i pochi e vendere balle, o quasi balle, a uso e consumo di parte. La taglio col coltello la questione: finché la legge lo permette cacciare è un mio diritto. Sui tempi e sui modi c’è tanto da dire, ma che ne parli e decida gente preparata che conosce l’argomento, non politici tuttofare o crociati invasati.
La caccia è fatta di momenti apparentemente slegati, ma che costituiscono l’anima della nostra passione
Continuiamo la nostra intervista e cerchiamo di conoscere quali sentimenti suscita la caccia nell’animo dell’artista
Domanda: Che tipo di caccia pratichi?
Risposta: Ormai caccio quasi solo colombacci dal palco, e cinghiali, qui a Bolgheri, dove vivo. Sono posti bellissimi; ti lasciano senza fiato. Ti alzi prima dell’alba. Il profumo del caffè nel gran silenzio della casa, mentre la luce comincia a ritagliare il profilo dei monti di velluto nero. E poi sul palco, quando tutto è pronto, quell’altro silenzio, teso e magnifico, prima che tutto cominci. E il primo branco che cura, il primo colombo che si tuffa a bicchiere nell’aria di vetro della tramontana. No! Non mi considero un selvaggio: non io, non i miei amici del palco. In quattro che siamo, quando torniamo con due o tre colombi a testa, su decine di migliaia che ne passano, è una giornata da raccontare. Altro che massacri a tappeto: balle da statistica stracciona.
D: Dal periodo Barocco, e su fino a Roberto Lemmi, spesso è il carniere e non il paesaggio il protagonista. C’è differenza secondo te in queste due scelte di soggetto?
R: La natura morta «di genere» nasce quasi sempre per dipingere un quadro decorativo e di effetto. O per il piacere di dipingere semplicemente. Le vie misteriose della pittura di qualità possono anche portare al capolavoro. Altra cosa è il «racconto di caccia» fatto da pittori cacciatori, quelli che sanno, hanno visto e provato. Penso a Cecconi, uno per tutti. La memoria dell’accadimento, per loro, è tutt’uno con l’ambiente naturale dove si è svolto. E anche qui, nei casi più fortunati, non mancano i capolavori.
D: Dipingere un soggetto venatorio è espressione dell’equilibrio che c’è tra caccia e natura?
R: Francamente non lo so. Quando incrocio certi Rambo in mimetica della specie spara-fucile, mi è difficile pensare che possano anche solo immaginare cosa significhi equilibrio tra loro e la natura. Un pittore che caccia è prima di tutto un cacciatore, ma questo è un nome che va meritato. Il cacciatore conosce la natura, sa viverla e rispettarla, la respira semplicemente: tutto qui. Io non sono un pittore di caccia, sono un pittore di paesaggi e si può dire, in un certo senso, che vado a caccia di paesaggi.
Testo e foto di Jacopo Billi