È stato approvato da parte dell’Assemblea il Ddl n. 1676 recante disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali, già approvato dalla Camera dei Deputati, ma alla quale dove tornare per le modifiche apportate.
Il Ddl, che è collegato alla manovra finanziaria del 2014, si compone di 79 articoli, ripartiti in undici capi. All’articolo 6 (disposizioni per il contenimento della diffusione del cinghiale nelle aree protette), precedentemente accantonato, sono stati approvati l’emendamento 6.500 (testo 2) del relatore, senatore Stefano Vaccari, e il subemendamento 6.550 (testo 2)/2 del sen. Massimo Caleo.
In sintesi, mentre per gli storni si intendono creare migliori condizioni per la tutela delle colture agricole, il testo approvato per il cinghiale ne vieta l’allevamento e l’immissione a fini venatori e di ripopolamento e il foraggiamento.
Eccezione al divieto di immissione di esemplari di cinghiale è previsto per le Aziende Faunistico Venatorie e per le Aziende AgriTuristico Venatorie adeguatamente recintate.
L’emendamento presentato originariamente dal relatore prevedeva però anche la possibilità di immissioni per le Zone addestramento cani, eliminato nella stesura finale.
Francamente restiamo perplessi da una simile decisione, dal momento che anche le Zac per i cani da cinghiale sono, e non potrebbe essere altrimenti, adeguatamente recintate e sicuramente mantenute in perfetta efficienza da chi le gestisce, spesso piccoli imprenditori agricoli regolarmente autorizzati di cui si va a colpire una forma di introito economico percentualmente minoritario, ma sempre importante soprattutto parlando di attività che si svolgono in zone rurali marginali e quindi in gran parte poco redditizie, oltre a mortificare ancora una volta e senza nessuna reale necessità l’associazionismo venatorio.
Non si capisce in effetti in cosa queste Zac siano più rischiose ai fini di una eventuale fuga di cinghiali con irraggiamento sul territorio – selvatici che per altro in questo caso sono sempre in numero estremamente limitato, trattandosi di pochi capi – da un analogo recinto di una Azienda AgriTuristico Venatoria, sicuramente per sua stessa natura ben più densamente popolato.
Se la motivazione, come pare, nasce da una manifestata esigenza di tutela nei confronti dei cani, forse immaginati gettati in mezzo a torme di cinghiali inferociti per selezionare i più capaci, oltre a non avere ben presente il funzionamento di queste zone, l’obbiettivo raggiunto è sicuramente tutto il contrario, dal momento che i cani da cinghiale utilizzati dai cacciatori, non vengono addestrati ad attaccare il suide, ma proprio a tenersene a debita distanza una volta scovato, in modo da non subire danni se questi invece della fuga sceglie di reagire.
Anche grazie a questi recinti, privati o da loro gestiti, le Associazioni Venatorie, si preoccupano e danno modo di preparare i cani successivamente impiegati a caccia proprio per ridurre il più possibile i rischi per i loro fedeli amici.
Un addestramento che non può certo avvenire in zona e periodo di caccia, magari trovandosi davanti non soggetti di mole e indole più controllata, come quelli impiegati nei recinti appunto, ma selvatici ben più aggressivi che, di fronte a cani giovani o impreparati provocherebbero danni evitabili invece con una buona preparazione.
Auspichiamo che la palese e immotivata differenza di trattamento con strutture analoghe, considerate anche le espresse considerazioni economiche a favore dell’impresa agricola in zone spesso svantaggiate e l’aspetto di un addestramento che ha come principale scopo quello della tutela degli ausiliari impiegati in questa forma di attività venatoria e di controllo di una specie di cui subiscono i danni gli agricoltori e i cittadini italiani, spingano il legislatore a porre rimedio a questa ingiustificata decisione.
Roma, 6 novembre 2015 – Federcaccia – Enalcaccia – ANUUMigratoristi – Arci Caccia – Eps