Cinghiali selvatici, se la carne dei capi “in eccesso” diventasse una risorsa pubblica?
Il modello delle “macellerie provinciali” torinesi potrebbe essere redditizio per gli enti pubblici, mentre in Toscana i cacciatori possono vendere piccole quantità di carne. Obiettivo: utilizzare correttamente le risorse ed evitare gli sprechi
Il numero dei cinghiali selvatici è quintuplicato negli ultimi 30 anni. Ad oggi, secondo le stime, sono 600mila gli esemplari sparsi in almeno 95 delle 107 province italiane. Tra normale caccia “privata” e operazioni di “contenimento”, se ne abbattono sempre di più. Così spunta l’idea di utilizzare la carne dell’animale selvatico come risorsa pubblica. Un business che tra l’altro potrebbe alimentare le finanze di alcune province italiane. Dati alla mano, un indicatore dell’aumento del numero dei capi è dato proprio dal numero degli abbattimenti: da 93 mila nel ’98 a quasi 115 mila nel 2005. Non ci sono statistiche più recenti, ma è significativo che gli incidenti stradali causati da cinghiali siano in aumento. “Se ne trovano in un’area di circa 190 mila chilometri quadrati, pari al 64 per cento del territorio italiano”, spiega l’Ispra.
Le operazioni di contenimento sono vere e proprie battute di caccia – che si fanno anche lontano dalla stagione ufficiale – a cui partecipano guardiaparchi e cacciatori con l’intento di uccidere i cinghiali, affinchè diminuiscano di numero. Massimo Vitturi, responsabile nazionale del settore caccia per la Lav, non è d’accordo: “Sono convinto che non vi sia un aumento del numero della popolazione dei cinghiali. E’ utile a troppe categorie denunciare un elevato numero di cinghiali, come i cacciatori e gli agricoltori, per accedere poi ai fondi regionali che tutti paghiamo. Si è alzato il livello di zoofobia, sta aumentando il livello di intolleranza..” commenta.
Comunque la si voglia vedere, dalle cifre dell’Ispra prendono il via i modelli delle “macellerie provinciali” del torinese, oppure della vendita diretta dal cacciatore al consumatore, come in Toscana. Di che si tratta? Nel torinese i cinghiali abbattuti nelle operazioni di contenimento sono proprietà pubblica e la provincia guadagna sulla vendita di questa carne. Punta innanzitutto a venderli nei (pochi) macelli del torinese a disposizione: a tre euro al chilo senza viscere, per la cronaca. Una scelta che se fosse espandibile a livello nazionale, creerebbe un introito non da poco per gli enti locali. Sempre su dati Ispra, sono stati oltre 11mila i capi abbattuti in operazioni coordinate dagli enti locali, al di fuori del periodo di caccia in tutta Italia. E moltiplicando i capi uccisi per il peso medio dell’animale (80kg) e il valore della carne “provinciale torinese” al chilo, ecco che verrebbero fuori più di due milioni e mezzo di euro.
Che diventerebbero 12 milioni di euro, se la carne degli ungulati fosse venduta al prezzo di mercato di 14 euro al chilo. Ma in pratica la catena commerciale della carne di cinghiale è piena di intoppi. Basti pensare che una parte delle carcasse dei cinghiali che diventano “prede” della provincia di Torino, vengono portate e bruciate in inceneritori, perchè i macelli autorizzati sono pochi e lontani.
In Toscana non c’è la gestione e vendita diretta della carne da parte delle province. “I capi abbattuti in queste operazioni sono regalati ai proprietari dei fondi posti al contenimento, oppure destinati ai cacciatori per la vendita”, spiega il presidente di Arcicaccia Toscana, Massimo Logi, a proposito degli abbattimenti. A livello nazionale, la Toscana sale sul podio degli Enti locali con più abbattimenti (5309), staccando non di poco Emilia Romagna (1813) e Piemonte (1408).
La normativa toscana dispone che il 70 per cento dei capi abbattuti nelle operazioni di contenimento vada ai proprietari dei fondi per i danni subiti (altrove li si paga più in euro che in carne), mentre il restante 30 per cento va ai cacciatori per i costi sostenuti per l’intervento. Alla disposizione si deve però aggiungere una successiva integrazione. E’ del 12 gennaio scorso il provvedimento regionale che consente ai cacciatori di vendere liberamente piccole quantità di selvaggina selvatica, anche se di grossa taglia. Prima non potevano vendere. Solo mangiare o donare. Per trattare direttamente con consumatore, macellerie o trattorie, ai cacciatori è sufficiente una dichiarazione scritta, in cui indicare la zona di provenienza degli animali. In un anno possono vendere un capo di grossa taglia (come i cinghiali) e fino a 50 animali di piccola dimensione. Interi o lavorati, gli animali devono essere trattati in locali rispondenti ai requisiti igienico-sanitari richiesti dall’Unione europea. Misure che, per i tecnici, dovrebbero incrementare un uso corretto del patrimonio alimentare, facendo in modo che il consumo di carne di cinghiale (selvatica, bene comune) sostituisca almeno in parte quello degli animali allevati.
fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it