Del resto, in natura, essi vivono in piccoli branchi e le occasioni di contatto ravvicinato fra di loro non sono poche. Adesso, però, i ricercatori temono l’insorgere di nuovi “serbatoi” animali, ovvero esemplari di fauna selvatica infetti che potrebbero rappresentare un rifugio per il patogeno e consentirgli di mutare e minare così l’efficacia dei vaccini fin qui sviluppati e approvati: “Una simile ricaduta potrebbe ora verificarsi nella fauna selvatica di tutto il mondo”. Per valutare questo rischio, Susan Shriner, esponente del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) a Fort Collins (Colorado), e i suoi colleghi hanno testato 385 campioni di sangue raccolti durante abituali attività di sorveglianza della fauna selvatica tra gennaio e marzo 2021 in quattro Stati americani (Michigan, Pennsylvania, Illinois e New York).
Gli studiosi hanno scoperto con stupore che il 40% dei campioni conteneva anticorpi SARS-CoV-2, prodotti in risposta all’infezione. Successivamente, nessuno dei cervi esaminati ha mostrato segni di malattia, a conferma dell’avvenuta guarigione. Nel complesso, un terzo dei cervi analizzati nel 2020 e nel 2021 ha sviluppato gli anticorpi. Le ipotesi relative alle modalità di contagio sono disparate: potrebbero essere collegate al contatto con gli umani, con altri animali o anche con acque reflue contaminate. “Se c’è una fonte comune di esposizione per i cervi, allora probabilmente la stessa fonte può far ammalare altri animali”, concludono i ricercatori, evidenziando l’importanza di tenere sotto stretto controllo la situazione, inerente non soltanto ai cervi, ma anche ai loro predatori e ad altre specie (Il Sussidiario).