Caccia al Capriolo: Mario racconta quel che per lui è la caccia alla cerca dei caprioli: avventura, emozioni, ricordi e passione che si ereditano e si lasciano in eredità.
E’ una caccia difficile da raccontare, difficile da praticare, difficile da insegnare eppure chi la pratica riceve in cambio sensazioni di puro appagamento. Sarà per i boschi all’interno dei quali vivono i caprioli, case di fate, troll e folletti, sarà per il fascino di questo selvatico, sarà per il silenzio e per la tranquillità che fa da compagnia a questa pratica. Non so nemmeno io il momento nel quale ho imparato la caccia alla cerca dei caprioli: in tutta la Mitteleuropa la chiamano Pirsch, ma per mio padre era semplicemente caccia, l’unica che conosceva, la più bella. Fin da ragazzino l’ho seguito e oggi mi faccio seguire da mio figlio. Ho sempre amato questo aspetto della caccia, regala continuità e si tratta di un ottimo collante fra padre e figlio. Le regole da seguire, che mio padre mi ha letteralmente inculcato da che ero bambino sono almeno tre: per cacciare i caprioli alla cerca bisogna essere silenziosi come delle pantere, misurati nei movimenti e avere un occhio preparato, in grado di notare qualsiasi dettaglio e qualsiasi movimento.
Nessuno possiede queste tre doti innate, nei boschi bisogna viverci, bisogna conoscerli e solo allora ci si sente come a casa, ci si muove silenziosamente e non sfugge niente; solo allora si ha qualche possibilità di dare la caccia ai caprioli alla cerca. Immediatamente dopo si deve necessariamente lavorare sulla conoscenza del selvatico e sulla padronanza di quelli che diventeranno gli strumenti di lavoro.
Cerco di farlo capire al mio ragazzo, che ancora non ha ben compreso la vera essenza di questa caccia: maledetto entusiasmo giovanile. Per essere un buon cacciatore di caprioli è fondamentale la pazienza e il sangue freddo: bisogna avvistare l’animale, essere in grado di leggerlo e molto velocemente capire se si tratta di un maschio, di una femmina, a quale classe appartenga e soprattutto se è prelevabile. A quel punto bisogna prendere una buona posizione e sparare; tutto questo in pochi secondi se si vuole aver successo. Quando mio figlio mi chiede come sia possibile riuscirci io gli rispondo che l’unica strada percorribile è quella dell’allenamento. D’altronde sbagliare in questo tipo di caccia non è una opzione contemplata.
Ricordo ancora una delle mie giornate di caccia preferite: ero con mio padre, mi aveva portato per la prima volta in quel bosco e l’autunno mi era sembrato insolitamente dolce e piacevole. Prima di allora la consideravo una stagione insulsa… ora è una delle mie preferite. Qualsiasi bosco durante quel periodo è un’esplosione di colore e arancio. Quel giorno c’erano betulle, ontani, aceri e molti altri alberi che contribuivano a creare un’atmosfera da sogno. La presenza più importante era però quella delle castagne: piacciono ai cinghiali e un po’ a tutti gli ungulati, ma i caprioli ne vanno letteralmente matti. Certo quando si parla di castagne è bene ricordare che raggiunta una certa ora, queste sono in grado di attirare non solo ungulati ma anche raccoglitori, quindi ogni cacciatore deve prestare moltissima attenzione: insomma il bosco è da condividere equamente fra tutti, cacciatori e non.
Quel giorno mio padre lo aveva scelto non certo a caso: aveva piovuto davvero tanto durante le giornate precedenti e il fogliame che faceva da tappeto al bosco, normalmente secco, ora era morbido e silenzioso, un punto a nostro vantaggio. Eravamo arrivati in anticipo come era solito fare mio padre, ma il mio entusiasmo di entrare immediatamente nel vivo della giornata fu smorzato subito. Mio padre mi fece sedere ai piedi di un ontano e mi disse di aspettare che infilarsi troppo presto nel cuore del bosco non era certo un vantaggio: si rischiava di non notare (visto il buio) dettagli importanti. Papà diede avvio alla giornata solamente quando la visibilità a suo parere era sufficiente. Il bosco lo avevamo scalato in maniera trasversale, silenziosi come due lepri e dopo una mezzoretta di marcia, tra un bel cespuglio di lamponi la prima visione della giornata: il fondoschiena macchiato di bianco di un favoloso capriolo. Quel maschio aveva almeno tre anni: papà mi disse di prepararmi. Sfilai lo zaino predisponendo la mia posizione quando da dietro il cespuglio comparve un esemplare ancora più grande, un maschio con un palco da lasciare a bocca aperta. Ovviamente mi concentrai su di lui e il colpo, grazie a Dio, andò a buon fine: sparare sotto l’occhio attento di mio padre mi ha sempre dato un senso di ansia indescrivibile. Si erano fatte le dieci, mio padre mi disse che dovevamo scendere per dichiarare al centro di controllo la nostra preda: non ne ero di certo felice, ma con il tempo si capisce quanto sia importante un’attenta registrazione dei prelievi. Ci dissero che era fondamentale la prossima preda fosse un capriolo classe 0, per mantenere un certo equilibrio. D’altronde la caccia dei classe zero è fondamentale per una giusta gestione della popolazione di caprioli nella zona, ma anche questo è un dettaglio che ho capito con il tempo.
Ricordo che risalimmo il bosco con una rapidità sorprendente: immaginate la mia delusione quando trovai la zona occupata da uno stuolo di raccoglitori di castagne. Mio padre mi consigliò un’altra zona; dopo altri venti minuti di camminata arrivammo alla location preposta. Come al solito quando papà non conosceva bene una zona era solito seguire qualche piccolo fiumiciattolo: in questo modo, diceva lui, il rumore dei nostri passi era coperto dall’acqua e si manteneva ancora l’elemento sorpresa. Ci aveva visto giusto: intorno a mezzogiorno, fra un languorino e l’altro, avvistammo una femmina, una cucciola e poco distante un cucciolo classe 0. Quella preda era chiaramente di mio padre che in pochissimi secondi aveva individuato, studiato e catturato quel piccolo di capriolo.
Il ricordo di quella giornata continua ad accompagnarmi e di tanto in tanto mi chiedo se io sarò in grado d’essere per mio figlio l’esempio che è stato mio padre per me.