Caccia al Camoscio: Abito nella Valle Taleggio, una piccola oasi di pace incastonata tra le prealpi orobiche…
Questa valle è situata a ridosso delle valli Brembana, Valsassina e Valtellina, ed è ancora oggi un luogo che sembra essersi fermato nel tempo. Qui ho la fortuna di godere appieno della vera pace e vivere a contatto con la natura. La natura, proprio lei. Il mio rapporto con essa, essendo un appassionato cacciatore, è stato sempre intenso.
Fare lunghe passeggiate, osservare l’ambiente, catturare prede, sono le modalità con le quali esprimo i miei sentimenti verso la natura.
Qualcuno potrebbe dire che uccidere animali per farne dei “trofei”, materiali o immaginari, non sia proprio una manifestazione di affetto.
Ma è propria questa l’essenza della caccia: dare la possibilità a chiunque di pensarla come meglio crede. Non mi sono presentato: mi chiamo Antonio e questa è stata la battuta di caccia a di un camoscio nell’Alta Val Brembana. Io ed il mio amico Federico, sia nella vita che nella caccia, l’anno prima avevamo avvistato un esemplare di camoscio maschio, molto grande di età, nei pressi del Pizzo del Diavolo, che segna il confine più settentrionale con la Valle Seriana.
Eravamo molto distanti dal camoscio e ci limitammo solo ad osservarlo, senza avere la possibilità di avvicinarci a lui a causa del terreno impervio, che limitava i nostri movimenti. Durante l’osservazione dell’animale, lo ammiravamo in tutta la sua bellezza e potenza, l’eleganza dei suoi movimenti. Non avendolo catturato, decidemmo di concentrare la nostra battuta su di lui, per portare a casa un trofeo. La sveglia suonò presto alle 3.00. Mi alzai dal letto muovendomi piano per non disturbare mia moglie Laura. Mi avvicinai alla finestra e osservai una fantastica luna piena che schiariva la notte fredda.
Scesi giù in cucina e preparai la colazione. Federico, in quello stesso istante, stava sicuramente compiendo i miei stessi movimenti. Sorrisi al pensiero, immaginando la perfetta sincronia tra me ed il mio amico. Terminata la colazione iniziai a prepararmi. Una volta lavato e vestito, ricontrollai tutto il mio equipaggiamento, che avevo preparata la sera prima. Un rituale solo per accertarmi che non avessi dimenticato nulla. Uscì di casa ed entrai nel mio fuoristrada. Rimasi fermo qualche istante per far scaldare il motore e ne approfittai per accendermi una sigaretta, l’ultima fino alla fine della battuta di caccia. Misi la prima ed andai a prendere Federico, che mi aspettava già in strada, sapendo che sarei arrivato entro poco tempo, poiché conosceva la mia precisione negli appuntamenti. Salito in macchina, ci stringemmo la mano ed iniziammo il viaggio verso le pendici del Pizzo del Diavolo. Il viaggio durò circa un’ora. Erano le 4.15. Scendemmo dalla macchina, in assoluto silenzio ed iniziammo la salita verso la nostra meta.
Sulla mia spalla c’era la mia carabina Merkel SR1, mentre su quella di Federico una Blaser R8, entrambe con ottiche di precisione. Era ancora buio quando ci incamminammo per il primo sentiero, aiutandoci con delle torce elettriche. Arrivammo in prossimità del Pizzo del Diavolo verso le 5.30. L’alba stava per arrivare. Decidemmo di ritornare nel luogo dove avevamo avvistato l’anno prima il camoscio. Speravamo che non fossero cambiate le sue abitudini e che l’animale avesse conservato il proprio territorio. Ci appostammo ed iniziammo a caricare le nostre armi, controllando che tutto fosse in sicurezza.
Faceva freddo ed io e Federico ci controllavamo a vicenda per accertarci che nessuno dei due avesse problemi con il freddo. Eravamo ben equipaggiati, ma dopo tanti anni di battutre di caccia, avevamo imparato una cosa: che la prudenza e non dare nulla per scontato a caccia è fondamentale.
Durante l’attesa, dal cielo iniziava a filtrare un po’ di luce, aiutando la nostra osservazione che fino a quel momento era stata limitata. Infatti, non potendo scorgere bene alle lunghe distanze, ci aiutavamo più con l’udito, cercando di carpire ogni singolo suono nei paraggi. Stavo per dire a Federico che forse era il caso di cambiare postazione, ma ad un certo punto sentimmo dei rumori. Il suono inconfondibile del passo del camoscio accelerò il mio cuore, che iniziò a pompare sangue a maggiore velocità.
Ero emozionato e lo dissi a Federico, il quale mi rispose che anche lui sperava di vedere ciò che pensavamo, il nostro camoscio. Non era lui, ma una mamma con il suo piccolo che le stava sempre dietro. Puntai il fucile verso la femmina, ma Federico posò una mano sul mio avambraccio, dicendo a bassa voce: “Se uccidiamo la madre, uccideremo anche il piccolo. Credo sia meglio lasciar perdere”. Stavo per rispondergli che sprecavamo un’ottima occasione per portare a casa un trofeo, ma Federico mi disse, anticipandomi, che eravamo li non per portare a casa un trofeo, ma il trofeo, il camoscio maschio che ci era sfuggito l’anno prima.
Rimanemmo in silenzio qualche secondo ed abbassai l’arma. Federico mi sorrise e continuammo ad aspettare. Erano le 7.30 e la vallata era in pieno sole. Presi il binocolo ed iniziai ad osservare tutto l’ambiente circostante alla ricerca del nostro camoscio. Era un esemplare unico, distinguibile per una cicatrice sul fianco destro, che forse si era procurato cadendo su una roccia per sfuggire a qualche pericolo. L’osservazione non diede nessun risultato e mi alzai per rimetterci in marcia verso un altro versante del Pizzo del Diavolo. Anche Federico stava per alzarsi, ma si accovacciò di nuovo, all’improvviso, tirando giù anche me. Puntò il fucile, dicendomi: “Dritto davanti a noi a circa 100 mt”. Era un camoscio maschio molto grande, ma leggermente diverso dall’esemplare dell’anno prima. Era girato sul fianco sinistro e quindi non potevamo vedere la famosa cicatrice. Girandosi per brucare dell’erba, il camoscio mise in mostra la ferita di “guerra”. Era più snello dell’anno prima, anche se conservava intatta tutta la sua maestosità.
La nostra regola a caccia di camosci era una: “un colpo solo”. La osservavamo per una questione di rispetto verso l’animale, per evitare che potesse soffrire se ferito ad una parte non letale, ma che lo avrebbe sfiancato comunque in attesa del colpo di grazia. Dissi a Federico che spettava a lui il compito di sparare, poiché era stato lui ad avvistarlo per primo. Tra me e lui non c’era mai stata rivalità nella vita, figuriamoci a caccia. Fede puntò il fucile e fece partire il colpo, che andò dritto al cuore uccidendo l’animale sul colpo, senza farlo soffrire. La regola non era stata infranta. Iniziammo ad avvicinarci all’animale per prepararlo al trasporto verso la macchina. Mentre ci avvicinavamo, io e Fede ci guardammo soddisfatti. Non eravamo grandi chiacchieroni. A me e lui bastava uno sguardo per capire cosa stesse pensando l’altro. Arrivammo vicino all’animale, ormai morto. Era molto pesante e durante il trasporto facemmo non so quante soste per riposarci. Arrivati alla macchina, lo legammo sul tettuccio ed iniziammo il viaggio di ritorno.
Mentre ci complimentavamo a vicenda, ad un certo punto mi venne in mente una cosa e dissi: “Oggi abbiamo ricevuto un regalo dall’Alta Val Brembana e non dobbiamo dimenticarci quanto siamo fortunati a vivere qui”. Quel giorno non sparai nemmeno un colpo; era già capitato in precedenza, ma non è mai stato un problema. Quel colpo non sparato voleva una femmina di camoscio viva accanto al suo piccolo.
La stagione di caccia non era terminata e ci sarebbero state altre occasioni.