Al centro la conservazione degli habitat naturali. Strumenti preziosi cultura, scienza e piani nazionali. Un legame antichissimo. È quello che unisce, ancora oggi, i cacciatori alla terra. Fuori da ogni retorica, e tuttavia nel dialogo con gli esponenti dell’ambientalismo odierno, Arci Caccia ribadisce il concetto: il ruolo che l’attività venatoria svolge nei confronti della tutela dell’ambiente e della biodiversità va riconosciuto. Che cosa significa? Ne abbiamo parlato con il presidente Christian Maffei.
LE ORIGINI E I VALORI
“Arci Caccia nasce nel 1969 e ad oggi si caratterizza per l’attenzione a due aspetti per eccellenza: da una parte l’ambiente a tutto tondo, non solo quindi ai fini venatori, ma declinato nell’impegno dei cacciatori nelle attività di monitoraggio, conservazione e lavoro su boschi e foreste; dall’altra parte il ruolo dei cacciatori nella società, sulla base di una concezione della caccia come un’attività non riservata esclusivamente a un’elite economica e culturale, ma, effettuata all’interno di regole ben precise, vero e proprio patrimonio della popolazione”. Solo sulla base di questi due pilastri è possibile comprendere l’impegno e le sfide che riguardano Arci Caccia e le associazioni italiane del settore fuori dai luoghi comuni o dalle ‘posizioni’.
“Partiamo dall’ultimo aspetto: si tratta di un tema messo in discussione recentemente dalla componente associativa agricola che spinge per orientare verso un modello privatistico di caccia. Il nostro contrasto verso questa linea ha alla base una motivazione di tipo fortemente culturale: sicuramente il principio consumistico in cui viene incanalata l’attività venatoria tramite un modello di questo tipo salterà meno all’occhio dell’ambientalista, ma se si va alla radice della questione si può comprendere che questo si tradurrebbe in un declino sempre più rapido della caccia da un punto di vista di tradizione e cultura”. Perché ne va dell’ambiente? “Quando parliamo di tradizione intendiamo nel caso della caccia un profondo legame con il territorio e rispetto della natura. Mantenere un piano di accesso per esempio ai comprensori alpini significa porre al centro della gestione del prelievo la conservazione, ovvero la tutela della biodiversità e della fauna come previsto dalla legge 357. Va compreso che dietro a una gestione non ottimale del prelievo, che è ciò per cui ci impegnamo in prima istanza oggi, c’è un forte rischio in termini di biodiversità”.
Qui entra molto in gioco il contributo delle scienze, che permette di innestare la pratica all’interno delle conoscenza moderne, per contribuire alla tutela della fauna, al suo equilibrio. “I riscontri dal mondo scientifico ci permettono di rispettare la coesistenza delle specie. Parliamo in particolare di fauna migratoria, dove l’evoluzione scientifica permette di definire meglio gli spazi di prelievo. Allo stesso modo strumenti preziosi si dimostrano i piani nazionali di conservazione, che ci aiutano a gestire l’attività attenti alla sostenibilità e al benessere dell’ambiente e della biodiversità”. È possibile costruire un dialogo da questo punto di vista? “L’animalismo esasperato ovviamente rende difficile la costruzione di un dialogo. Con il panorama ambientalista, invece, che ragiona a tutto tondo sulla tematica ambientale, troviamo un punto d’incontro. Anche a noi sta la sfida di non irrigidirci in un dialogo che ci mette in discussione”. Un altro obiettivo che vi sta impegnando accanto al miglioramento nella gestione del prelievo, direzione cura dell’ambiente? “Sicuramente la tutela delle colture agricole dai danni della fauna selvatica”.
L’associazione lavora per favorire una corretta gestione del prelievo
Privatizzazione del modello. Un rischio per l’ecosistema. Modificazioni climatiche fra le cause dell’espansione di alcune specie a scapito di altre
“Fra le sfide che oggi ci sentiamo di dover contrastare – spiega Christian Maffei – spicca la privatizzazione dell’attività venatoria. Riteniamo che sia il frutto di una scorretta gestione del prelievo e di alcune specie in particolare. Come associazione impegnata nel settore ci assumiamo per primi la responsabilità e per questo lavoriamo ogni giorno affinché si arrivi a una gestione migliore, in grado di tutelare di più e sempre meglio la biodiversità. Va chiarito, tuttavia, che l’aumento di alcune specie, mi riferisco per esempio all’espansione degli ungolati, a scapito di altre specie, non è dovuto alla presenza o attività dei cacciatori.
È bensì conseguenza di fattoti ambientali e climatici che nel territorio italiano hanno portato all’aumento di alcune specie e alla perdita di altre. In altre parole, a fare da padrone sono sempre, in ultima analisi, ambiente e clima”. In qualità di cacciatori, e dello stretto legame con la terra, gli associati di Arci Caccia questo lo sanno bene, e quindi ancora meglio stanno lavorando per rendere il loro impegno un servizio alla tutela dell’ambiente e della biodiversità. “Oggi sempre più concepiamo l’attività non solo nei confini derivanti dalla tradizione, dalla storia e dalla cultura e passione che l’uomo si porta dietro in questo campo, ma altresì concentrandoci proprio sulla natura della pratica come potenziale e concreto servizio alla collettività. Ci sentiamo custodi di una tradizione che non va in contraddizione con l’ambiente, ma anzi in esso trova le proprie radici più profonde”.