Partiamo da un presupposto: la caccia è bella tutta. Detto ciò, ognuno ha le proprie inclinazioni, passioni ed esperienze. La mia limitatissima esperienza di caccia ai tordi è stata sempre quella da appostamento temporaneo, dove la soddisfazione è basata principalmente sullo studio delle traiettorie di volo, le zone di pastura e dove i tiri, spesso di stoccata, sono particolarmente difficili. Nell’ambito della caccia ai tordi una modalità che mi ha da sempre affascinato è quella dell’appostamento fisso con richiami vivi. Questa forma di caccia è praticata maggiormente nel nord Italia, ma ha una lunga e preziosa tradizione in alcune zone della Toscana e dell’Umbria. Ho avuto modo di assistere a una mattinata di caccia da appostamento fisso in compagnia degli amici Giuliano e Mirco nello splendido territorio di Montalcino.
“La cura dell’appostamento richiede un lavoro che dura praticamente tutto l’anno: il dintorno del capanno va potato, sistemato, dotato di particolari arbusti che devono essere curati con costanza…insomma, deve diventare più naturale possibile” mi spiega Giuliano, mentre raggiungiamo nel buio il capanno. “Questo tipo di caccia è più che altro una forma d’arte: è necessario conoscere molto bene le abitudini dei selvatici, le loro preferenze alimentari, l’influenza del meteo sui loro comportamenti…e in più si deve avere qualche cognizione di botanica, per selezionare le specie vegetali da piantare, per potarle secondo uno schema che non risulti artificioso ma nello stesso tempo permetta il posizionamento dei richiami e il facile recupero dei capi abbattuti. Insomma: questa caccia qui non è per tutti, ci vuole una dose di pazienza e costanza che solo pochi matti hanno!”. “E’ vero! – gli fa eco Mirco – per non parlare dei richiami! Selezionare una batteria di richiami efficace non è affatto semplice! Bisogna allevarli e nutrirli tutto l’anno, agire sul fotoperiodo cioè modificare il loro bioritmo alterando il ciclo luce-buio in modo che il loro canto si tari sulla primavera nel mese di ottobre. “Da dove vengono i tuoi tordi?” chiedo a Mirco, affascinata dalla grande quantità di gabbie stipate nel fuoristrada. “Ho provato ad allevare qualche tordo, ma è una fatica che non premia: da piccoli vanno imbeccati per venti giorni, è come avere un neonato da accudire …per lo più i miei sono presicci che sono stati selezionati da me e mio padre in base alla qualità del loro canto. Ci sono alcuni che si sentono primedonne, altri che hanno bisogno del supporto dei colleghi. Pian piano li si conosce tutti, e si trova la disposizione vincente per far funzionare l’intera batteria, proprio come un’orchestra sinfonica!”
Giunti al capanno, entriamo un una struttura molto curata e perfettamente mimetizzata nell’ambiente. Su tre lati vi sono delle feritoie alte almeno un metro e mezzo. Davanti al capanno, disposti a semicerchio, una fila di alberi molto alti e stranamente spogli. “Quelli che vedi qua davanti al capanno sono i così detti alberi da buttata. Veniamo spesso a potarli. Sulle sommità vedi legati dei rami spogli: quelli sono i secconi, insieme alle pertiche orizzontali che vanno da un albero all’altro servono da posatoi. Sono molto frequentati soprattutto da merli e bottacci” mi spiega con professionalità Giuliano. Tra gli alberi e il capanno c’è un fondo d’erba, costellato da arbusti. Accompagno Mirco che fa la spola tra la jeep ed i cespugli con in mano le gabbie “Questi arbusti sono di ginepro e alloro” mi spiega, “sono molto graditi ai nostri turdidi! Nel mezzo abbiamo creato gli appoggi per le gabbie dei richiami…dov’è Denis?” – chiede Mirco a Giuliano, interrompendo la sua spiegazione. “Eccolo qua, il mio tenore!” il giovane cacciatore conosce uno per uno tutti i suoi richiami. Di ciascuno saprebbe riconoscere il timbro, il comportamento. Ognuno di essi ha un nome, e un posto predefinito. “Gino lo metto qui perché non canta mai se ha accanto Veronica”, spiega sottovoce, mentre dispone le voci del coro sul palco. “Sai, esiste un fenomeno che si chiama gelosia: talvolta un cantore che canta benissimo a casa rischia di non fare un bercio se ha accanto un collega che canta prima e meglio di lui!”.
Ci spostiamo per rientrare nel capanno. “Sentirai che musica quando inizierà a far giorno!” esclama Mirco.
Ai primi bagliori dell’alba un melodioso brusio si eleva al cielo, da dove il pubblico alato accorre per posarsi sui rami. I quattro calibri a disposizione dei cacciatori si alternano in funzione della distanza di tiro. La mattinata non è particolarmente prodiga d’incontri, ma ogni qual volta un tordo si posa in prossimità della piazza, attratto dal canto dei suoi richiami, il volto di Mirco si illumina di malcelata soddisfazione: a quel punto sparare per lui diventa un optional. Per pochi secondi il concerto s’interrompe come se qualcuno avesse premuto il tasto “mute”: l’ombra delle ali spiegate di un falchetto ci chiarisce la causa del prudente silenzio. Scampato il pericolo, il canto riprende.
Pochi bottacci, qualche merlo e un solo “alpigino” (sassello, ndr) sono il premio non solo di oggi, ma di un anno intero di lavoro. In questa caccia si semina molto e, in proporzione, si raccoglie veramente poco: mesi e mesi di preparazione, e poco più di un mese di passo che, tra silenzio venatorio e perturbazioni autunnali, si traduce in qualche sparuta giornata di caccia. Non sarà lo sforzo di arrampicare in montagna dietro ai camosci, ma in questa attività venatoria la fatica non manca. E così, come la caccia è bella tutta, mi vien da affermare che, ben fatte, tutte le forme di caccia richiedono sacrificio, ampiamente ripagato da una passione autentica.