È venerdì pomeriggio. Ci siamo incontrati con Antonello in autostrada per raggiungere insieme l’appennino bolognese dove ci attende un week-end di caccia al daino. Mi ha invitato ad accompagnarlo ed io accetto volentieri, trascurerò un po’ la famiglia e la mia squadra per un’esperienza di caccia in compagnia di un amico che vedo pochissimo. I cd sono sparsi sui sedili posteriori e lì rimarranno, poiché Antonello ha un tale bagaglio di avventure e racconti da condividere che potremmo fare due volte il giro del mondo. Quest’anno per lui è stato fantastico, soprattutto dal punto di vista venatorio. È tornato in Africa per l’ennesimo safari, questa volta con l’ambizione di prelevare il re dei felini predatori: il leopardo. Avevo visto una delle prime foto che, commosso, ha condiviso con gli amici, ma sentirlo parlare di quest’avventura, dell’adrenalina, la paura nel predare il più feroce predatore…beh, è tutta un’altra storia! Chi è stato in Africa viene contagiato da una malattia incurabile che si attutisce solo tornando lì. Per me che ascolto è solo appena immaginabile quanta meraviglia possa suscitare la caccia in Africa, ma è palese che in lui queste esperienze hanno lasciato un segno indelebile e gli hanno fatto vivere emozioni altrimenti introvabili a “casa”.
I chilometri scorrono fluidi mentre nei suoi racconti il viaggio continua e attraverso i mesi di preparazione fisica, tra palestra, diuretici e visite cardiologiche, Antonello si prepara al viaggio più impegnativo, da sempre sognato: il Kyrgyzstan, a caccia della mitica pecora di Marco Polo. Per ambire a prelevare questo magnifico animale Antonello si è dovuto preparare, seguire lezioni di equitazione per potersi muovere in quelle terre aspre e selvagge, e soprattutto fare un tagliando al suo fisico non più ventenne per affrontare i rigori del clima a quasi 5000 m slm.
“Il leopardo mi ha fatto vivere un miscuglio esplosivo di emozioni, dove il brivido e la paura evocate da questo grosso e pericolosissimo animale si mischiava alla soddisfazione di aver preso con precisione chirurgica un predatore che fa tremare la savana al solo nominarlo. La Marco Polo è stata la realizzazione di un sogno, e stringere tra le mani quel trofeo mi ha fatto rivivere in un istante i sacrifici fisici e la disciplina che ho avuto verso me stesso per presentarmi al suo cospetto”.
L’emozione di Antonello è tangibile e in alcuni passaggi contagiosa, e anche io mi emoziono al solo sentir evocare certi meravigliosi scenari. Più si fa avvincente il recente passato e più mi solletica una curiosità: come può un uomo, un cacciatore che ha vissuto esperienze simili, “accontentarsi” (mi si passi il termine) di una caccia a un – seppur bello- esemplare di daino? Cosa spinge il mio amico a macinare tutti questi chilometri per cacciare un “banale” daino dopo aver avuto l’onore di cacciare un leopardo? Mi tengo questa mia domanda, così semplice ma temo imbarazzante, mi ci addormento e quasi la dimentico durante la nostra uscita, e poi il giorno successivo.
Quando Antonello si china sul fusone di daino che la natura ci ha concesso, noto un tremolio tra le sue ciglia. Non sarà la “lacrimuccia” che ha versato sul feroce leopardo o sulla maestosa Marco Polo, ma è pur sempre un’emozione. Questa piccola informe lacrima è la prova che, a prescindere dai contesti e dal “prestigio” delle prede, il sentimento innato che muove l’uomo verso la caccia non si divide tra le esperienze vissute, ma può solo moltiplicarsi.