Difficile parlare di una amico scomparso, difficile più ancora quando l’amico era divenuto un personaggio di spicco del nostro mondo giornalistico venatorio.
scritto da Emanuele Tabasso
Danilo Liboi, torinese e frequentatore dapprima delle risaie dove organizzava una tesa alle anitre poi passato con l’anima e con il cuore alle montagne, specie quelle della Val di Susa, sapeva essere ispido, pungente, arrogante e litigioso. Ma attenzione: in un mondo di accomodanti opportunisti, di saggi esercenti della dietrologia, di infingardi nel pensiero e nelle azioni queste che ho citato sono qualità di classe superiore, sono medaglie di rara valenza, sono caratteristiche che permettono di apprezzare, a volte in sani duelli verbali, quel che c’è nell’individuo.
Dentro all’animo di Danilo c’erano quelle doti di personalità spiccata, frutto di educazione, studio e cultura prelevati e tenuti in serbo nel corso degli anni, con queste si affinavano le armi ideali della schermaglia verbale fatta di stoccate di fioretto, taglienti sciabolate o brucianti staffilate: la mezza misura non gli apparteneva e con questo garantiva all’interlocutore l’impossibilità di travisare il suo pensiero. Magari non sempre si poteva essere d’accordo con lui sulla materia trattata, ma si apprezzava il contendente onesto e sincero che non aveva timori o paure nell’esporre le proprie convinzioni con dovizia di ragionamenti e documentazioni.
Mi raccontò soltanto una grossa bugia quando, per questioni editoriali, smisi di scrivere per le due testate da lui magistralmente dirette, Cacciare a Palla e Sentieri di Caccia: era talmente arrabbiato che mi disse “da oggi tu sarai un nemico”. Cercai di stemperare la tensione correggendo il termine in avversario, ma senza distoglierlo da quel marchio che mi aveva affibbiato. Ecco, la bugia era solo frutto della delusione, si andava così d’accordo per il lavoro, e il tempo aveva in seguito fatto riemergere l’essenza del nostro magnifico rapporto, anche a distanza e senza incontri frequenti. L’ultimo a Vicenza il lunedì pomeriggio quando, soli in un corridoio della fiera, ci siamo fermati a parlare e ancora una volta non mi è riuscito di andare oltre a un asserto laconico, ma molto chiaro sulla sua salute: “parliamo d’altro” disse e il discorso virò sul caro Federico e sulla sua magnifica strada aperta in zone del mondo come l’Africa dove i suoi 19 anni sono tutti da esprimere con la semina oculata di papà fin da bambino.
Credo che proprio il germogliare di tanti buoni semi negli gli anni futuri consentirà al figlio di capire e accettare certe cose. Prima di lasciarci tentai un aggancio prossimo per un incontro al di fuori del lavoro, un po’ come il passaggio del cucchiaino vicino al masso dove sta la trota, ma fu inutile. Mi abbracciò, cosa inusuale per lui, con forza e amicizia, l’essenza di una vita certo non lunga, ma di un’intensità prodigiosa.
Emanuele Tabasso