Viaggi di Caccia. Questi sono ricordi: leggendo il racconto forse ti verrà voglia di visitare i luoghi che lo hanno alimentato. Potrai farlo, ma senza fucile in spalla. Dal 2009 il Delta del Danubio è diventato patrimonio dell’umanità e riserva della biosfera dell’Unesco. In grossa sostanza qui i volatili si riposano, si riproducono e volano via, più tardi, per cercare nuovi ambienti da esplorare e vivere.
(Prima parte) – Quando io ho conosciuto il Delta del Danubio era il 1990. Allora non avrei mai immaginato che sarebbe diventato un luogo bandito ai cacciatori, perché tutto, in quell’habitat acquitrinoso mi parlava di caccia. Le distese di acqua e canneti portavano ieri come oggi dalla Romania fino all’Ucraina, e tutto intorno era un tripudio di acquatici e natura. Si tratta non a caso della più grande riserva di fauna migratoria europea, seconda, in termini di dimensioni, solo al delta del Volga. Parliamo di 3450 chilometri quadrati di laghi, canneti, spiagge sabbiose, isolotti, prati umidi, rive, campi, foreste pluviali. Insomma per gli amanti della caccia palustre un vero e proprio paradiso terrestre.
Quel lontano giorno di caccia del 1990 io e alcuni amici avevamo scelto di cacciare proprio nel delta del Danubio, a pochi chilometri da Bucarest, nei pressi della zona di Tulcea. Certo, Mario insisteva per l’esplorazione di tutta l’area rumena e ucraina, ma quella sarebbe diventata, qualche giorno più tardi un’altra avventura, ma noi ancora non lo sapevamo.
Il Danubio ti faceva diventare un cacciatore romantico e così, a distanza di 14 anni ancora ricordo la levataccia, il fascino del cielo plumbeo e di quell’alba gelida e fredda ma che pure prometteva una giornata di sole. L’odore delle paludi, lì come altrove era nauseabondo, ma si mescolava a mille altre essenze palustri che lo rendevano sopportabile.
Ogni mattina riproponevamo quello che era diventato rito della cuvegia: cercavamo la giusta posizione, ci fissavamo con delle aste, la circondavamo di stampi, ci coprivamo con teli mimetici e rimanevamo in attesa dell’arrivo di qualche volatile.
Per chi non ha mai praticato la caccia in cuvegia, è bene che sappia che è una delle più entusiasmanti e più impegnative che io abbia mai provato. Il segreto sta tutto nell’esperienza e nella pratica: ogni cosa deve essere prevista, ma soprattutto al cacciatore è richiesto d’avere grande intuito, conoscenza del volatile e del territorio. Potresti pensare si tratti di dettagli, ma sono particolari in grado di fare la differenza specialmente durante le “giornate difficili”: hai presente quando il volatile proprio non ne vuole sentire di curvare sugli stampi o quando il tempo è pessimo e non ti avvantaggia nel lavoro? Ecco in questi casi l’esperienza ti aiuta, ti aiuta tanto.
L’alba l’attendevamo nella nostra cuvegia, ben mimetizzati e in silenzio fintanto che le anatre da richiamo non ci avvertivano che le danze stavano per cominciare. Era come se d’improvviso spuntassero i primi raggi di sole e il cacciatore che riposava in noi si svegliasse d’improvviso. A quel punto si ringraziava d’aver costruito il proprio riparo nel luogo giusto e nella maniera più intelligente: non solo la cuvegia era ben nascosta, ma i falaschi erano tagliati all’altezza degli occhi, solo la nostra testa era visibile seppur sempre mimetizzata. Avevamo inoltre l’obbligo di mantenere al riparo le canne del fucile fino al momenti giusto, per confonderci al massimo con il dintorno. Anche il momento dello sparo non era per niente semplice. Ricordo che i primi momenti in cuvegia con Giacomo sono stati piuttosto complicati: si deve trovare una certa sintonia con il cacciatore che ti sta accanto, ma chi riesce nell’impresa ha davanti una giornata di pure soddisfazioni. Sparare all’unisono, evitare errori e inutili ferimenti alla lunga era diventato un vero e proprio gioco da ragazzi.
Qualche giorno dopo il nostro arrivo un amico ci propose una follia: volare alla volta di Izmail, in Ucraina e dedicarci due giornate venatorie di pura avventura. Potevamo rifiutare? (Fine Prima parte)