Nella moderna caccia al cinghiale, quella per intendersi dei grandi numeri, le battute che ancora sono capaci di lasciare il segno non sono molte. Oggi le cacciate che rimangono impresse nella memoria di tutti divengono allora quelle durante le quali il valore dei contendenti, segugi, irsuti e sapiens trovano la massima esaltazione. Insomma quelle giornate al termine delle quali, a prescindere dal numero dei capi abbattuti, tutti vorrebbero dire con immenso orgoglio: quel giorno c’ero anch’io!
Testo di Federico Cenci
Dopo tanta acqua finalmente il sole. Fortunatamente anche quest’anno con la squadra del Castellaccio abbiamo potuto godere di almeno un paio di cacciate di quelle che non si scordano. Battute dove segugi, canettieri e postaioli hanno saputo lavorare in perfetta sinergia riducendo al palo anche alcuni di quei verracci davvero poco raccomandabili che, come si usa dire in gergo, sanno «leggere e scrivere»! Quest’inverno almeno qui in Toscana il maltempo ha superato davvero se stesso, mettendo a dura prova anche i cinghialai più navigati. Così dopo circa due mesi di pioggia quasi ininterrotta, finalmente quel sabato mattina l’aria asciutta di tramontana sospinse lontani le nubi e ci regalò un sole raggiante.
Dopo tante cacciate conciati come palombari, le coloratissime bardature anti acqua rimasero a casa e tutti noi canettieri affrontammo il bosco con rinnovato entusiasmo. Si cacciava sul poggio del Torrino, una vastissima zona di «macchia lente» intervallata da alcuni fittissimi roveti nei quali i cinghiali amano rimettersi quando dai quadranti orientali soffia teso il vento di levante. E quella gelida mattinata di fine dicembre il vento sferzava proprio da est. Insieme con mio padre avevamo fatto alcune perlustrazioni nelle vaste leccete che ammantano le pendici del Torrino e con sommo piacere avevamo rilevato che non vi era un solo metro quadrato di terreno che non fosse stato rovesciato a dovere. Le condizioni atmosferiche dei giorni precedenti avevano ridotto a terra ingenti quantità di succulente ghiande mature al punto giusto, autentica prelibatezza per i nostri amici setoluti. Dopo un breve consulto, stimammo che nella zona potevano esserci cinque o sei cinghiali, tra i quali un bel maschio che, a giudicare dall’orma, poteva raggiungere il quintale. Piero, fidatissimo addetto alle operazioni burocratiche ante-battute, fu celere più che mai, giacché la bella giornata di sole aveva riempito il rialto come da tempo non si vedeva. Considerando che le ultime due volte che avevamo cacciato nella zona in questione la maggior parte dei selvatici l’aveva fatta franca bucando la linea dei battitori, decidemmo di cambiare la linea delle poste, avanzandola di qualche centinaio di metri.
La prima parte dell’armatura venne dunque sistemata seguendo l’alveo di un fosso che scende ripido dal crinale del poggio per raggiungere un ampio stradone, lungo il quale piazzammo gli scaccioni. Le ottime condizioni meteo agevolarono il lavoro dei nostri ausiliari e così, dopo un rapido accostamento, almeno tre segugi presero ad abbaiare a fermo in una della canoniche rimesse di quella zona di caccia. «I cani sono a fermo nel fitto del Torrino, attenti alle poste!!» – annunciò attraverso la radio uno dei canettieri vicini alla rimessa. Passarono pochi minuti e la maggior parte della nostra muta si portò a ridosso dei selvatici. I segugi intensificarono la loro azione serrando i selvatici, che non ressero a lungo. Il crescendo continuo dell’abbaio a fermo culminò in un’assordante levata: qualche cinghiale aveva abbandonato la lestra. La concitazione tra i canettieri fu immediata. « Sono partiti, eccoli eccoli!» «Attenti alle poste, l’animale è ritto!» «Forza scaccioni, vociate, vociate!» La canea era davvero spettacolare, una ventina di segugi Maremmani, eccitati più che mai, incalzava con decisione una bella scrofa di una sessantina di chili. Una coppiola rabbiosa ci avvertì che la canizza aveva raggiunto proprio la nuova armatura. Rimanemmo tutti con gli orecchi tesi verso la canea nella speranza di sentirla affievolire fino a spegnersi in corrispondenza delle schioppettate. Così fu. Pian piano gli abbai si diradarono sino a terminare definitivamente, si udì di tanto in tanto qualche abbaiaccio «a paura» di quelli fatti dai cani più giovani giunti per ultimi sulla spoglia del selvatico. La scrofa, che precedeva di qualche centinaio di metri la canizza, raggiunse il botro al trotto svelto, ma pochi metri prima di guadare si soffermò un istante per ascoltare meglio i suoi inseguitori.
Cinghiali accanettati… ma c’era una bella linea di fuoco
Il suo indugiare le fu fatale. Giancarlo, il fortunato postaiolo, mirò dritto alla spalla e lasciò andare due fucilate che parevano una. La scrofa, colpita da entrambi i proiettili, scartò sulla destra rovinando schiena a terra giù per l’argine del fosso. La sua discesa terminò a ridosso di un grande masso grigio a pochi centimetri dall’acqua. «È morta, è una bella femmina; chiamate i cani sono tutti qui!» – dichiarò per radio Giancarlo pochi minuti dopo l’abbattimento. Quella nuova linea di fuoco pareva funzionare alla perfezione. Gli scaccioni posizionati subito appena fuori il fosso avevano lavorato alla grande, indirizzando con decisione i cinghiali verso l’armatura. Mentre la maggior parte dei segugi si godeva ancora la preda, Tanacca, un giovane segugio maremmano fulvo, abbaiava di nuovo a fermo poco distante dalle rimesse dalle quali era partita la prima femmina. I suoi abbai potenti e cadenzati si udivano distintamente da grande distanza. Tanacca abbaiava di posizione, immobile a una decina di metri dalla lestra tenendo il naso sul filo del vento. L’acre usta del vecchio solengo li giungeva decisa. Di tanto in tanto la cadenza d’abbaio s’infittiva fino a culminare in spettacolari raddoppi di voci capaci di infervorare gli animi di tutti quelli che riuscivano a sentirlo. «… attenti, Tanacca abbaia a fermo; occhio potrebbe essere un verraccio!» – gridò Gabriele via radio mentre con due cani al guinzaglio tentava di accostare le accovature. «Chi ha recuperato i cani aspetti a sciogliere, meglio tentare il tiro a fermo!» – ribatté Rinaldo. In breve gli scaccioni ripresero le loro posizioni, e mentre un paio di volenterosi canai si incaricarono del recupero degli ultimi segugi rimasti intorno al selvatico, gli altri presero ad avvicinarsi verso il cane a fermo. «Attenti gli vado sotto!» – urlò via radio Rinaldo, il responsabile dei canettieri, prima di sparire tra stipe e corbezzoli. Mentre tutte le nostre attenzioni erano rivolte verso Tanacca, udimmo nella parte bassa della linea di fuoco una micidiale scarica. L’eco, di almeno otto schioppettate sovrapposte, si rincorse per tutta la vallata del torrente Chioma. Lo stupore per quell’inaspettata Santa Barbara ci assalì spontaneo.
Dopo qualche istante di assoluto silenzio, radio macchia trasmise a nastro la consueta domanda: «… poste che avete fatto ? … È morto ?… poste rispondete!». La risposta giunse immediata e in tutti noi rinnovò il già crescente entusiasmo. Fabio, il responsabile dei postaioli, con la proverbiale flemma che lo contraddistingue, bisbigliò via radio: «… sulle poste è arrivato un bel trenino, almeno dieci cinghiali ci hanno scordonato in fila indiana a una trentina di metri, ne dovrebbero essere morti un paio, ma non sono sicuro; comunque sono rimasti tutti dentro, non n’è uscito nemmeno uno!». Il branco dei selvatici guidati da una vecchia scrofa era partito alla chetichella, come sovente fanno i cinghiali più scaltri e innervositi da ripetuti inseguimenti da parte dei segugi. Insomma come si usa dire in gergo quelli erano di certo cinghiali accanettati, di quelli che prediligono continui spostamenti all’arroccamento in una fitta rimessa. Un segugio a fermo sulle rimesse e cinque sei cinghiali in piedi nella zona di caccia sono davvero una bella prospettiva! Immediatamente decidemmo di accostare qualche segugio verso la zona dell’armatura dove il setoluto trenino aveva deragliato; ma non servì fare neanche un passo. Come un’esplosione dopo pochi secondi udimmo riaccendersi nel bosco una roboante canizza; erano i segugi che rientrando dalla prima canea avevano intercettato la scia olfattiva del branco rimettendosi prontamente in seguita. Le esortazioni di alcuni canettieri rimasti nelle retrovie furono continue: «Attenti scaccioni, urlate, sparate, fate fuoco i cinghiali vi puntano… forza, sono sei… dai, dai non vi fermate!». Come è facile comprendere, quei cinghiali che già avevano provato ad attraversare la linea dell’armatura difficilmente avrebbero rimboccato quella via di fuga; ad ogni modo gli scaccioni presero a fare il loro dovere reggendo i selvatici in battuta.
Bravo Tanacca!