Dagli amici dell’Appennino giungono notizie di beccacce. Effervescente l’Appennino, nel colore del foliage autunnale che ha incendiato il bosco. Invito intrigante per un beccacciaio “per caso”. Opportunità “d’autore” per un ausiliare anelante alla ferma, nella tensione della postura che gli fa masticare l’aria lasciando filtrare una lieve traccia di bava bianca agli angoli della bocca. Ma bisogna conoscere i posti, non si può improvvisare. Certo che se non si risica non si rosica, e, anche se la caccia alla regina non è quella abituale, si può comunque andare e vada come vada, non è mica richiesto di timbrare il cartellino.
Pensandoci bene, un paio di posti in realtà si possono esplorare con una ragionevole probabilità d’incontro con la beccuta. In uno ci sono già stato un paio di volte con Vittorio. C’è una sponda d’incolto, coperta di quercioli bassi, e in fondo, fra la sponda e il prato, c’è un fossetto dentro il quale striscia un rivoletto d’acqua che tiene inumidito il terreno. Mica un gran posto, ma ad una beccaccia, in certi giorni, evidentemente va bene piantare il becco anche lì. Una volta con Vittorio l’abbiamo trovata. Avevamo però preso forse un po’ sottogamba il luogo, tutt’altro che portatore di fascino delle foreste del Grande Nord, e lei se n’è andata senza nemmeno farci sporcare le canne degli schioppi. Bisognava crederci di più, e gestire meglio i cani.
L’altro posto è fra un ginestreto, nei pressi di una fonte. Anche là il terreno è adatto, e la beccaccia l’ho levata con i piedi una volta che attraversavo per altri motivi, senza fucile. L’ho segnato nell’archivio della memoria: se c’era una volta ci può andare anche un’altra, non si sa mai. Poi c’è un gran bel posto, mi dicono, al confine con la Toscana. So bene dov’è e da dove si passa, ma con il cane fin là non sono mai stato, e quindi, francamente, sarebbe forse la meta giusta per un’investigazione vera e propria, e non per un’uscita di “alleggerimento”. Magari un’altra volta.
Sembra più giusto tentare di sfruttare la ragionevole probabilità d’incontro che tutto sommato ci può essere nei due posti conosciuti, per dare corpo alla non-proprio-recondita-speranza di vedere la regina almeno volare. “Scolopax non olet” mai, adattando un noto proverbio a tutte le considerazioni che frullano in testa. La sponda con il fossetto si scalda prima dell’altro posto, e il cane ci può arrivare più fluido, sfruttando meglio il vento. Vada per quello!
Via dunque, con la doppietta leggera, la vecchia Lajot, cinque e otto decimi di strozzature in due chili e ottocento grammi di peso. Svelta alla spalla, un piacere portarla.
Sul posto, la piazzola su cui lasciammo l’auto l’altra volta con Vittorio è libera. Non c’è nessuno. Il sole è già salito. Pochi metri e si imbocca il sentiero, con il cane che già esplora il terreno. La sponda con il fossetto è dopo il poggio, più in basso sulla sinistra. Se c’è la pastura, “lei” dovrebbe essere non troppo lontano, nel raggio di un centinaio di metri al massimo. Ecco, pare che il cane abbia “qualcosa” nel naso,… ha rallentato… tiene la testa alta… E’ un po’ lungo però, se si deve tirare. Se c’è la beccaccia e parte adesso… non siamo nelle migliori condizioni.
Ecco, cavolo, è partita, c’era! Ma che spari a fare in quelle condizioni? E’ andata via verso un posto che sicuramente non conosco, e quindi non c’è appello. Il cane, che si aspettava il botto che non c’è stato del fucile, si è fermato e guarda nella mia direzione con espressione interrogativa degli occhi: = Che è successo? Mi sono perso qualcosa? =. Quando è volata via, alla beccaccia brillavano le piume sotto il sole già alto.