Racconti venatori: Ricordi di caccia alle anatre sulle rive del Po’, in compagnia di amici cacciatori, tutti legati da uno spirito di condivisione e cameratismo che non abbandona mai la caccia.
Sono nato in una famiglia di amanti della natura, che non solo si sono attenuti a viverla, ma anche a studiarla. Fattore in maremma mio nonno e mio padre, io ho ereditato la passione, laureandomi in scienze biologiche e condividendo con gli uomini della mia famiglia la passione per la caccia, che ai tempi di mio nonno era qualcosa di serio.
Ho imparato da loro che agricoltura, ambientalismo e naturalmente caccia possono andare a braccetto, e meno di sessant’anni fa, le cose andavano per davvero così, e chi ha frequentato la vecchia scuola, lo sa bene. Era praticamente impossibile incontrare nella zona un fattore che non fosse anche conoscitore dei boschi, raccoglitore di funghi e naturalmente cacciatore.
I miei primi ricordi venatori risalgono alla mia più acerba giovinezza, quando mio nonno e mio padre si incontravano con gli amici e dopo lunghe giornate di caccia si scambiavano racconti e opinioni sulla mattinata trascorsa, imbevuti d’uno spirito gioviale che non potrò mai dimenticare.
La caccia che più piaceva a mio padre, che iniziò a praticare con maggiore costanza dopo la morte di mio nonno, era quella alle anatre che ci costringeva a spostarci fino sul Po’. Era una vera e propria faticaccia svegliarsi alle 4,00 del mattino e uscire alle 4,30, ma io ricordo solo l’eccitazione della partenza e del viaggio in compagnia di mio padre.
Non portavamo mai con noi il cane anche perché sul Po’ ad aspettarci c’era un agricoltore che organizzava le battute e metteva a disposizione il suo meticcio, favoloso nel lavoro di riporto in acqua. Immediatamente dopo lo sparo Ben si tuffava e ripescava le anatre colpite, riportandole delicatamente accanto a noi: era un meraviglioso esemplare di pastore tedesco. Ripensare al viaggio d’andata mi emoziona ancora: non avrei più provato quelle intense emozioni.
Beata gioventù! Al nostro arrivo c’era freddo, umido e il sole che sorgeva rischiarava a mala pena la pianura, ma io sentivo solo l’eccitazione del momento. Raggiunto il luogo di caccia e l’agricoltore che ci attendeva ci si preparava alla giornata: l’odore di caffè caldo e il silenzio della natura che si risvegliava sono ricordi impagabili, che non credo mi abbandoneranno mai. Ci sistemavamo in una vera e propria casupola riscaldata, immersa nella nebbia e attendevamo l’inizio della bella giornata venatoria che ci attendeva.
Fu proprio durante una di quelle giornate che scoprii la caccia con il bombardino, già allora vietata, tipica della zona. Quando arrivava l’ora giusta per l’appostamento vero e proprio si percepiva nell’aria una bella tensione precaccia. Mio padre utilizzava un monocanna calibro 36 e di norma sceglieva di nascondersi nei pressi di un bel pioppo, nascosti da canne e falaschi: un meraviglioso riparo naturale.
Con i primi fili di sole il dintorno era letteralmente invaso da passeri cinguettanti pronti a saccheggiare le piante palustri che più di una volta sono stati la mia caccia preferita, mentre mio padre inseguiva con lo sguardo anatre enormi che caso volesse non fossero mai a tiro. Ne parlava per settimane intere, mentre io, con il mio bel carniere di caccia povera pensavo alla bella polenta che la mamma mi avrebbe cucinato.
Durante quelle giornate indimenticabili ho imparato molto sugli animali, sulla vita, sulla morte, sul rispetto per l’ambiente, ma soprattutto sugli uomini, che durante la caccia tirano fuori la parte più vera di sé.