Caccia: Tordi e colombacci sono indubbiamente i protagonisti della vicenda migratoria che anno dopo anno, ormai da una eternità, interessa da nord a sud quasi tutte le regioni del nostro Paese, strategicamente proteso tra i paradisi di nidificazione e i caldi lidi di svernamento.
Testo e foto di Pierluigi Mugellesi
Il sottile piacere dell’attesa
Molti appassionati attendono tordi e colombacci al varco, presso appostamenti studiati per poter utilizzare i richiami, gabbie e piccioni, che li inducano a portarsi alla giusta distanza di tiro.
Tuttavia il passo calza a pennello anche al cacciatore non specializzato, tanto che crediamo di poter dire che la tecnica più utilizzata dalle doppiette nostrane per poterli insidiare durante il viaggio autunnale sia rappresentata dalla cosiddetta caccia dalla «posta», una disciplina che affascina per la speciale atmosfera, per la frequenza di abbattimenti e per l’attrattiva irresistibile del tiro al volo.
Si tratta di una «tradizione» che ha conosciuto il boom negli anni Settanta-Ottanta, per poi conoscere un ridimensionamento con l’applicazione dei vincoli previsti della legge quadro nazionale. Dunque come tutte le tradizionali forme di caccia, essa ha una storia che puntualmente ci troviamo a rimpiangere, ma ha fortunatamente anche un presente che la rende ancora praticabile e talvolta prodiga di forti emozioni. Verso la fine di settembre, il cacciatore appassionato di migratoria, ed in special modo di tordi e colombacci, entra in fibrillazione, inizia a consultare i bollettini meteorologici, a fiutare l’aria per avvertirvi il sapore inconfondibile della stagione di passo. Le sue scorribande in armeria divengono sempre più frequenti, e dal momento che in realtà ha già tutto quel che gli occorre per accogliere degnamente i volatili tanto agognati, sono piuttosto il pretesto per incontrare i numerosi colleghi avvinghiati dalla sua identica frenesia e imbastire con loro discussioni ripetitive, quasi liturgiche, che sanno in tutto e per tutto di rito propiziatorio.
Poi, una sera, quando sembra giunto il momento giusto, si affaccia da una finestra, infreddolito, per contemplare lo scintillio delle stelle accese dal soffio teso della tramontana e le ombre nere che sembrano ingigantire le sagome disegnate dagli alberi contro il blu intenso della notte. Le raffiche di vento, pungenti come le spine aguzze dei ginepri, portano alle sue narici un odore nuovo eppure ben conosciuto. È l’odore giusto, una sorta di miraggio olfattivo del nord, quello che immediatamente fa presagire l’accendersi incerto di una limpida giornata autunnale. Affacciato a quella finestra attende che a poco a poco svanisca il monotono «rumore» del calmo e surreale silenzio della notte ed aguzza l’udito per afferrarne la voce… una voce inconfondibile, l’intrecciarsi di un fitto e pettegolo bisbiglio di sottofondo… Sono i metallici zirli dei tordi, la voce tagliente delle nostre notti di cacciatori.
È un magico concerto, dove gli sfuggenti strumenti, celati ed inghiottiti nell’oscurità, risuonano remoti in lontananza per poi improvvisamente pizzicarci vicini, tanto che pare impossibile non riuscire a scorgerli; ed infine si perdono timidi e nuovamente distanti, dileguandosi dietro l’ineffabile, ma imperioso richiamo di un misterioso orizzonte. Di solito sono voci duettanti, incomprensibili, ma emozionanti dialoghi di invisibili compagni di viaggio. Talvolta invece sono zirli solitari e malinconici, fiochi lamenti di spaesati ritardatari. Eppure si susseguono senza posa, secondo ritmi ora stanchi ora concitati, intervallati talvolta da pause che lasciano sospesi, in ansiosa attesa della ripresa successiva; ed ogni voce pare abbia un suo timbro particolare, ogni singolo zirlo pare la nota azzeccata di una ininterrotta melodia della natura, che avvince irresistibilmente, che alimenta una irrefrenabile scarica di adrenalina, quella che spinge il cacciatore a mettersi in viaggio nottetempo per attendere il miracolo dell’alba nella chiusa eppure sconfinata oasi verde della sua posta.
In questo microcosmo che lo affaccia sull’infinito, finalmente sopraggiunge il primo sberlume di stagione e con esso il primo spollo di tordi e merli. Poi con le luci che rendono piena evidenza alle forme che lo circondano, il suo sguardo si rivolge un po’ più in alto, per sorprendere i voli regolari dei turdidi di entratura, senza quella frenesia che contraddistingue il momento caotico dell’albeggiare. Adesso non si tira più di imbracciatura ma si può prendere la mira con calma. Infine, snocciolata una bella serie di «mezzefini», piombo 8-10, si iniziano a tenere a portata di mano le cariche più pesanti, quelle a cui ricorrere allorché al transito dei tordi faccia seguito quello dei colombacci. Certo, per poterli raggiungere non bastano canne lunghe dalla bocca strozzata e cartuccioni magnum (che anzi a nostro avviso andrebbero ignorati per una caccia che comunque deve contemplare il rispetto del selvatico); bisogna invece che il meteo, e in particolare Eolo, siano favorevoli e abbassino gli stormi fino a renderli possibili anche per chi non può contare sull’ausilio di cimbelli e volantini.
Insomma, questa sarebbe la giornata tipo, ideale, per l’amante della posta, ma tutti noi sappiamo bene che in genere all’inizio della vicenda migratoria non si verificano tutte le condizioni suddette contemporaneamente. Si inizierà con una discreta giornata da tordi, poi capiterà quella buona per i colombi e giunti a metà ottobre si può sperare di imbatterci nella mattina buona un po’ per tutto. Il debutto comunque è immancabilmente all’insegna del tordo. A tal proposito prima che il passo «rompa» in modo deciso, chi conosce bene gli amici bottacci già da qualche giorno avrà preso a frequentare con assiduità la posta, perché qualche piccola mossa questi uccelli la concedono anticipatamente, e fin dagli ultimi giorni di settembre le primissime ore del mattino regalano qualche sporadica soddisfazione. Si tratti in genere dei contingenti di uccelli che hanno nidificato nel nord del nostro paese o anche sulle zone più elevate delle regioni centrali. Ma già per la prima settimana di ottobre c’è da attendersi la prima consistente ondata di passo. È difficile che la decade iniziale di ottobre non conosca una giornata di intenso flusso di uccelli, alla quale segue poi uno strascico in cui il passaggio va rarefacendosi fino al primo mutamento di tempo o abbassamento di temperatura. Insomma, per gli appassionati della caccia al tordo dalla posta la prima regola da rispettare è quella della costanza: rinunciare ad una uscita per scarsa fiducia può significare perdere una irripetibile occasione.
La magia dello sberlume
Quando è il tempo i tordi prendono a muoversi, e sotto questo punto di vista presentano differenze rispetto ai colombacci, che ritardano la migrazione fintanto che le condizioni meteo non risultino ideali. Bottacci e merli no: giunto il loro momento, iniziano a spostarsi e sta a noi farci trovare pronti ad attenderli al varco. Temperatura a parte (come non notare i cambiamenti climatici che hanno interessato il primo scorcio d’autunno nell’ultimo ventennio, con l’ottobre che da mese seminvernale si è trasformato in mese semiestivo), il meteo conta ancora moltissimo non tanto per il passaggio degli uccelli quanto per la scelta del sito di caccia. I tordi non sono molto sensibili alle condizioni meteo proibitive, tanto è vero che alcune delle migliori giornate di passo che i cacciatori ricordino sono spesso quelle caratterizzate da precipitazioni, allorché la pioggia cada in modo costante in assenza di vento o in presenza di brezza leggera. Insomma, se i colombacci anticipano la perturbazione o attendono che essa passi (vogliono cioè che il bel tempo si affili per spostarsi in tutta tranquillità), il tordo al contrario spesso e volentieri cavalca la buriana, a meno che essa non sia accompagnata da forti venti di mare come libeccio e ponente. Ma il leggero ed umido scirocco li invoglia a muoversi non meno della tramontana. Certo, occorre di volta in volta valutare dove sia il caso di attenderli, se sulla fascia costiera o piuttosto nell’interno, Al passo dalla «posta» La magia dello sberlume ed è per questo che non potendo scegliere dobbiamo mettere in conto di perdere alcune giornate, quando la fortuna arriderà ai colleghi meglio posizionati per quelle particolari condizioni atmosferiche. Ma in genere Madre Natura e figlio tordo riescono nell’arco del mese e mezzo «incriminato» ad accontentare tutti. Il cuore dell’ottobre, dal quindici a fine mese, rappresenta il periodo in cui alla posta ci si può imbattere in un filotto continuo di giornate propizie, con gli uccelli che si muovono in piccoli gruppi di tre-sei individui, fino alle dieci del mattino, alimentando nei punti strategici di transito quella bagarre che non avrà modo di ripetersi nel corso della stagione di caccia. Chi vuol sfruttare al meglio una giornata di caccia a tordi e merli non può prescindere dal rispettare una regola fondamentale: alzarsi presto dal letto e trovarsi pronto, prima del sorgere del sole, sul posto di caccia.
Il motivo è semplice: per questi piccoli selvatici alati il momento dell’uscita mattutina è senza dubbio cruciale ed il vero appassionato sa quanto sia importante approfittarne non solamente per il carniere quanto, o forse soprattutto, per le intense emozioni che in quel breve arco di tempo è possibile assaporare. I primi tiri si effettuano quando ancora la luce stenta a prendere il sopravvento sulle tenebre. Per alcuni sono i colpi più emozionanti. Noi condividiamo questa impressione: la soddisfazione che regala riuscire a centrare d’imbracciatura una fugace ombra che in pochi istanti si sottrarrebbe alla nostra vista è davvero grande; tuttavia, nel caso in cui si cacci da poste collocate all’altezza del suolo, questi tiri possono rivelarsi assai delicati, e richiedono da parte del cacciatore il massimo del sangue freddo per riuscire in un attimo a valutare se sia il caso di imbracciare e far fuoco o piuttosto rinunciare per evitare di mettere a rischio l’incolumità del prossimo. In effetti, a buio, gli uccelli sfrecciano ad altezza fronde che, nel caso della macchia mediterranea costiera corrisponde esattamente all’altezza uomo. In ogni caso è sempre breve il lasso di tempo in cui il bosco, come per miracolo, pare avvertire la frenesia irresistibile del risveglio, come se le sue creature dovessero per forza affrettarsi a muoversi prima che il sole faccia capolino. Allo sberlume la concentrazione deve essere massima, la mente deve essere sgombra da ogni pensiero, l’occhio deve essere fresco, vigile e mobile, e le capacità sensoriali tese allo spasimo. Debbono esserci solo il ristretto orizzonte di luce al di sopra delle fronde e i nostri nervi, pronti a scattare alla minima occasione. Il tiro sarà sempre reattivo, istintivo e di pura imbracciata, motivi per il quale il secondo colpo difficilmente ha tempo e modo di essere esploso.
La stoccata, solitamente, è indirizzata nel punto dove si ha l’istantanea sensazione di aver intercettato il bersaglio, senza alcun calcolo di anticipo e magari con l’unico accorgimento del farsi trovare dal selvatico già parzialmente impostati in direzione dello spicchio di cielo dove le probabilità di vederlo sfrecciare sono più elevate, ma comunque pronti ad effettuare una rapida rotazione del busto. Quindi i tordi prendono a transitare in quota, ed allora, oltre ad essere muniti di un valido mezzo di richiamo (a bocca o manuale, se non si dispone di qualche gabbia), il rispetto del mimetismo diviene essenziale se si vogliono potere sfruttare al meglio le occasioni che gli uccelli vorranno concederci nell’arco delle due ore seguenti. È il momento in cui i cacciatori dopo aver scorto all’orizzonte i piccoli punti neri in avvicinamento, sono chiamati ad effettuare, con giusta scelta di tempo, i classici tiri impostati: quelli che si pregustano per tempo, sperando che gli uccelli non cambino direzione improvvisamente, che qualche colpo non sopraggiunga a sottrarci l’emozione agognata, quelli ragionati che mettono alla prova la mira, quelli che si dovrebbero effettuare solo allorché la distanza del bersaglio risulti adeguata, quelli, infine, impossibili da sbagliare e che tuttavia non di rado ci lasciano stupiti, disincantati, con l’amaro in bocca e la voglia matta di rifarci al più presto.
In volo tra la spuma delle onde
Poi arrivano i colombacci. C’è chi ha modo di cacciarli in altura e chi, come noi toscani, soprattutto in riva al mare. Saremo pure di parte, ma dobbiamo dire che la caccia a questi migratori acquista un fascino particolare quando a far da sfondo al passaggio degli stormi oltre all’azzurro del cielo è il blu intenso del mare. Tutti i gusti son gusti, ed è naturale che ognuno di noi sia particolarmente affezionato alla propria terra ed ai «suoi» paesaggi. Paesaggi che rievocano sensazioni, sensazioni che riportano alla mente stagioni passate, vive soltanto in quella parte istintiva della memoria che rappresenta lo zoccolo duro della nostra identità. Per quel che ci riguarda ci sono molti chilometri del litorale toscano lungo i quali il verde della collina si perde nel blu intenso del mare, più o meno dolcemente, lasciandosi precedere da sottili tomboli e lidi sabbiosi, ma anche bruscamente, tuffandovisi a precipizio con le sue spalle rocciose sulle quali, fino agli ultimi metri, si arroccano i fitti cespugli della macchia mediterranea. Rientrano in questa tipologia di riviera il promontorio dell’Argentario o quello di Punta Ala, nel grossetano, così come, spostandoci un po’ più nord in area labronica, il promontorio piombinese che congiunge Salivoli Al passo dalla «posta» In volo tra la spuma delle onde a Populonia e, per finire, la linea costiera che da Castiglioncello arriva fino a Livorno, in località Marroccone, passando per Quercianella e Montenero. Qui il paesaggio appare contraddistinto da foci rinserrate e profonde perpendicolari alla linea costiera, che si susseguono ininterrottamente e che le scogliere del Romito e di Calafuria e, al di là dell’artiglio su cui si staglia netta ed imponente la sagoma di Castel Sonnino, quelle di Campo Leccano e delle Forbici, sembrano a stento arginare. Scogliere sapide di sale e di un inebriante cocktail di sapori arborei: su tutti in ottobre un acuto e penetrante odore di ginepro. Non a caso in passato avemmo ad intitolare un nostro intervento sulla caccia ai colombi «colombacci di scoglio», perché davvero anni or sono i cacciatori locali, nelle giornate di gran sferratoio, non esitavano a piazzarsi a ridosso del mare per insidiare le nuvole di colombacci in totale balia degli elementi e dunque del tutto vulnerabili.
Ancora oggi, le prime postazioni di caccia buone per i colombi (a patto che soffi forte il vento) non distano che un tiro di schioppo dall’azzurro del mare, tanto che non è raro veder finire tra i gorghi un volatile ferito quando il vento soffia impetuoso. In questi posti, dove la vegetazione arbustiva la fa da padrona, la caccia del passo ha fatto storia, ed all’epoca in cui ancora non esistevano atc ed altre limitazioni, era usuale assistere ad ottobre alla colonizzazione venatoria del litorale labronico da parte di brigate di doppiette lucchesi, pistoiesi e fiorentine. Del resto è inutile negare che si trattasse di altri tempi sotto molti aspetti: specie cacciabili e condizioni meteo in primis. Ed era obbligatorio, per ogni incallito migratorista, ovunque egli abitasse, far rotta verso il mare nel tentativo, ed anzi nella pressoché assoluta certezza, di intercettare gli uccelli migratori, i quali, nel compiere il loro lungo viaggio, assecondavano in massa le continue correnti d’aria spiranti dai quadranti orientali, affilando il proprio volo lungo il litorale tirrenico. Questa era la caccia sul mare: freddo pungente, odore acuto di polvere incendiata, crepitio continuo delle cariche di piombo che ricadevano al suolo dopo qualche bella scarica. E poi, per riscaldarsi o gustare una frugale, ma prelibata colazione a base di carne secca o salsicce, qualche falò acceso qua e là, e gli spiedi ricavati dai rami secchi di stipa affilati con un coltellaccio dalla parte della forcella. Infine il ritorno alle macchine, con la cartucciera alleggerita all’inverosimile, e con al fianco, assicurato allo strozzino di cuoio o corda, il piacevole fardello di un buon mazzo di pennuti. E per strada, sul gabbriccio dei viottoli scavati in mezzo al verde, puntuale il ritrovamento di qualche preda altrui, caduta e non recuperata, e di qualche ferito che finiva in voliera a patto di superare indenne le empiriche cure del cuore tenero di turno, spesso peggiori della stessa schioppettata. Ma come era variopinto quel carniere. C’era un po’ di tutto perché di tutto, allora, poteva esserci. E ce n’era per tutti. Per la fine del mese, talvolta anche prima, la bagarre terminava. Quel che doveva passare era ormai passato, e l’appuntamento era rimandato alla stagione successiva, quando l’ondata travolgente dell’assortito popolo migratore avrebbe nuovamente, immancabilmente arrembato le prode rocciose del nostro amato Tirreno.
Oggi la caccia sul mare ha ancora modo di essere praticata; conta in effetti numerosissimi cultori, ma indubbiamente appare assai diversa dalle sue vesti passate. Il senso continua ad esserle dato proprio dal passo dei colombacci, anche se dal punto di vista ambientale le cose sono cambiate radicalmente. La passata stagione, con un ottobre anche troppo freddo e contraddistinto da venti nordorientali continui e furibondi, è stata una eccezione nel contesto dell’ultimo ventennio (dove sono finiti, ottobre 2009 a parte, quei venti di sferratoio che rendono fatalmente vulnerabile sul mare il mitico uccello blu? Dove sono finite quelle tramontane che per tre giorni di seguito costringevano i grossi branchi a strusciare la spuma del mare e le chiome ispide dei ginepri?). E se per la caccia ai colombi dalla posta in riva al mare è indispensabile poter contare sulla presenza di correnti d’aria piuttosto sostenute da nordest, a nessuno sfugge come queste, che un tempo rappresentavano la regola, si siano assai rarefatte. Così, di norma, il grosso dei volatili passa per l’interno e sul mare nella maggior parte delle occasioni non rimane che «ciucciarsi le dita».
Inoltre il passo dei colombi appare posticipato e «strascicato», nel senso che i quindici giorni a cavallo tra fine settembre ed inizio ottobre risultano ormai persi, del tutto infruttuosi, ed il passo stesso, dal momento in cui «rompe», conosce delle pause improvvise e prolungate, che fanno sì che parte degli uccelli effettuino lo spostamento a novembre inoltrato. Insomma, un tempo si era pressoché certi che per venti giorni sul mare ci sarebbe stato da divertirsi senza sosta, oggi non è più così. Adesso perdere una giornata propizia significa perdere una delle poche chance che per quell’annata ci saranno concesse, nel peggiore dei casi addirittura l’unica.
…Leggi l’articolo in formato Pdf tratto da DIANA N°19/2010