La caccia al cinghiale si sa, sia essa in selezione che in contenimenti, ha un fascino indiscutibile. Viste le abitudini della bestia nera però si può dire che questo tipo di caccia si risolve spesso in tiri in orari ben più che crepuscolari su poco più di una sagoma nera di cui è molto difficile distinguere classi di sesso e di età. Cacciare in contesto montano, come mi è recentemente capitato, apre tutta una serie di opportunità di avvistamenti in orari ben più luminosi, andando a configurare una caccia che è più vicina a quella al camoscio in zona alpi, con tutte le difficoltà e le emozioni annesse. Siamo a maggio, a quota sopra ai 1000 m slm, con l’amico Leo ci siamo dati appuntamento per un’uscita pomeridiana. Un violento temporale notturno ha reso l’aria cristallina e tesi venti da nord est hanno spazzato vie nubi e umidità, scoprendo le ultime lingue di neve sulle vette più alte.
La nostra zona di caccia si colloca in uno sconfinato altipiano circondato da costoni rocciosi a fargli da proscenio, con salti di roccia intervallati da canali erbosi con qualche radura. Il vento che soffia anche quassù ci schiaffeggia e nel contempo ci suggerisce che i cinghiali, come tutti i selvatici in genere, non ci offriranno molte occasioni allo scoperto e dovremo escogitare una strategia per insidiarli nei punti in cui si rimetteranno sotto vento.
Con Leo identifichiamo il quadrante meno esposto alle raffiche e parcheggiamo il fuoristrada. Dopo una rapida sbinocolata identifichiamo già il primo animale. Sono ancora le 17.30, praticamente mancano non meno di tre ore al crepuscolo, ma in zone così amene e prive di antropizzazione non è infrequente avvistare selvatici in pieno giorno. Ci incamminiamo lungo il canalone che porta al cinghiale, e avvicinandoci ora sono due le sagome nere nel binocolo. In preda al più vivo entusiasmo procediamo con i piedi leggeri sul ghiaione, e nonostante le nostre accortezze un branco di cavalli allo stato brado parte al galoppo con un fragore che ci lascia a bocca aperta e con poche speranze di avvicinare le nostre prede.
Dopo pochi minuti di sosta per riprendere fiato ricominciamo a risalire il canale: roccette e ginestre interrompono la visuale in più punti, abbiamo la sensazione di camminare sulle uova man mano che ascendiamo verso il punto di avvistamento. Benché Leo sia un profondo conoscitore di questi posti e avessimo fissato il punto con precisione da lontano, ora che siamo a circa 300 m dalla posizione tutto sembra più incerto e vago. Sbinocoliamo con l’avidità di chi è certo di trovare qualcosa, ma nulla. Prendo il visore termico e indago nei punti di minor visibilità: una sagoma attira la mia attenzione, poi una seconda, ben presto i dettagli dell’immagine confermano che si tratta di un maschio e una femmina di capriolo. Lo stesso a 300 metri sulla destra, sempre due caprioli. Potremmo star qui ad aspettare che il cinghiale si rimetta in piedi, siamo più che certi che si sia rimesso in qualche anfratto non lontano da noi. Il vento ci soffia favorevolmente in faccia ma è diventato tagliente e fastidioso. La sensazione di freddo è sgradevole e, sommata alla delusione di non aver trovato ciò che ci aspettavamo, ci spinge ad osare e avanzare ulteriormente, consci del fatto che se il cinghiale è rimesso davanti a noi manderemo in fumo l’uscita, ma il tempo sta passando, la luce calando e ci sentiamo chiamati all’azione.
Risaliamo ancora con circospezione, e il nostro avanzare felpato viene interrotto dal rumore di un grosso animale in fuga. Una macchia nera ci appare fugace e scompare prima del rumore dei rami spezzati sotto il suo peso. La sensazione di un auto-sabotaggio ci accompagnava da un pezzo ma ora è una vera pugnalata. Non facciamo in tempo a crucciarci dell’occasione mancata che un numero imprecisato di puntini neri attirano i nostri sguardi increduli proprio laddove eravamo all’inizio dell’uscita. Un branco di cinghiali a diverse centinaia di metri da noi ci invita a ripercorrere tutta la strada fatta fin qui per insidiarlo. Riscendiamo rapidamente lo sfasciume e ci avviciniamo al punto designato. Nulla. Riso e stizza su alternano sui nostri volti sudati. Col visore termico indaghiamo all’interno della faggeta che circonda il campo. Nulla. Iniziamo a sondare i canaloni che come pieghe di una gonna si alternano lungo il costone. Ancora niente, dissolto. Di un intero branco nessuna traccia. La luce inizia ad indebolirsi, la speranza di un epilogo felice per questo pomeriggio va scemando. Ancora una volta, mentre il disappunto cresce un’immagine nuova attira la nostra attenzione e sconvolge ogni aspettativa: tre animali sono in piedi laggiù, proprio dove mezz’ora e molta fatica fa eravamo in bilico tra l’attesa e la voglia di stanare il cinghiale. Che fare? Tornare lassù, ora, è un’idea da pazzi, ma confrontandoci rapidamente capiamo abbiamo deciso all’unisono di tentare.
Via, su per il canale sassoso, con la stanchezza che si fa sentire, il fiato che si accorcia, il freddo che non si sente più e l’euforia mista al dubbio e alla frustrazione di sentirci in balia dei capricci della montagna. A metà percorso un fragore di zoccoli e campani ci raggiunge dall’alto, e poco dopo mentre il rumore si fa assodante vacche e vitelli in una nuvola di polvere vengono giù dagli alti pascoli come una valanga per raggiungere l’altopiano. Sorpresi e ammirati dalla mandria sfruttiamo il frastuono per progredire verso le sagome che avevamo avvistato dal versante opposto. Ancora una volta mute e spoglie rocce ci accolgono senza mantenere la promessa irsuta. Anche il visore termico ora tace, e il vento che sferza la cima sembra invitarci a lasciare questi luoghi.
Torniamo mestamente in direzione dell’auto. Ogni tanto ci fermiamo a sbinocolare più per scaramanzia che per altro. Un’occhiata col visore da osservazione ci fa sobbalzare: a poche centinaia di metri dalla macchina una chiazza enorme e solitaria sembra attenderci. La situazione è grottesca, abbiamo trascorso ore a rincorrere chimere e ora la resa dei conti sembra essere giunta. Visto il buio incipiente sarebbe insensato insidiare questo solengo ma la posizione favorevole ci induce a tentare. L’ottica performante permette l’ingaggio dell’animale, Leo ha tutto il tempo di studiare un appoggio sicuro a circa 150 metri dal cinghiale. Un colpo in cassa gli lascia ben poco margine di fuga. La mole e le poderose difese del verro ci ripagano di tutta la fatica e le funamboliche acrobazie che la sua cattura ci è costata.