Sentivo in me una sensazione di un qualcosa di diverso e straordinario; forse un avvenimento che mi avrebbe segnato la vita, per sempre. Era la terza domenica di dicembre, la penultima della mia prima stagione venatoria piemontese. Aprii gli occhi, in quella stanza, vidi i fiocchi scendere lungo il bagliore del lampione. Furono appena le quattro di mattina e il buio fuori veniva alternato da quei pochi raggi di luce che a malapena illuminavano la stanza. Scesi lentamente, in punta di piedi, la mia famiglia riposava ancora. Andai in bagno per prepararmi, e poi in camera dove risiede la mia fuciliera per prendere il mio Franchi AL48 cal. 12. “Non prenderai nessun fucile!” “Non arriverà mai nessuno schioppo qui a casa mia!!” Mi ripetevo nella mente le frasi dette da mia mamma (anti-caccia). Sorridevo, perché questa passione oltrepassa tutto, a lei, devo molto per avermi dato la possibilità di crescere e maturare. Chiusi il fodero, chiusi la porta in legno e me ne andai.
Fece freddo, l’aria era fresca, il cielo ancora era illuminato dal bagliore della luna e delle stelle, sentii il mondo mio, nella sua purezza, nel suo silenzio. Feci scaldare la macchina qualche minuto e poi partii. I pensieri si sovrapponevano lungo il percorso che neanche la musica riusciva a superarne il loro volume. Ero quasi arrivata al bar di Montezemolo. Un paese piemontese, ubicato sul confine piemontese-ligure. Il paesaggio è caratterizzato da un territorio collinare, la vista panoramica delle Alpi con la visuale delle sue cime più alte (Bisalta e Monviso) nelle giornate più limpide.
La vegetazione si può considerare la classica della fascia fito-climatica del Castanetum (castagno, frassino, aceri, ontano, pioppo, carpini, ciliegio selvatico, noce, nocciolo, rovere e roverella), anche se considerato uno dei diversi Comprensori Alpini della provincia di Cuneo. Qui è possibile cacciare anche con la neve (attività invece proibita nelle zone dell’ATC). In questo paese, nello stesso bar ci ritrovavamo ogni mattina, ogni domenica e mercoledì per poter iniziare la giornata insieme con un bel buongiorno.
Il mio sorriso aumentava in modo direttamente proporzionale al diminuire dei chilometri fino all’arrivare a salutare i cani, incrociando i loro sguardi dandogli carezze e tanti baci. Soraia, Tango e Sciaima, i tre ariegeois del mio compagno di squadra: Luca Penna. Presi un marocchino alla Nutella, un cornetto al cioccolato bianco e via. Deciso dove andare, prendemmo le macchine e partimmo. Il sole avanzava adagio e i suoi raggi illuminavano il ghiaccio facendolo brillare come diamanti. Vegliava il silenzio mentre guardavo il cielo che si schiariva. Avanzavamo i passi lungo il sentiero mentre gli altri si sistemavano alle loro poste.
Fu subito una magnifica giornata: grandi prede fin da subito. Gridavano alla radio la felicità “Bravo!”. “Sono arrivati i cani sul cinghiale, li fermo”. “Hanno fatto un bel lavoro”, “Grandissimo”, “Preso!”. La tenacia dei cani aumentava e in noi la grinta aumentava in un solo nostro sguardo condiviso. Vedevo in loro la voglia di correre, di cacciare nella loro natura perfetta da predatori. Era tarda mattina, mi ritrovai con il cuore in gola, il tremolio e il brivido lungo la schiena. Il suo ululato si faceva sempre più forte e il suo sguardo era feroce ma pieno d’intesa mentre ci guardava per attendere il nostro ultimo comando. Il luogo era sporco, fitto di vegetazione e l’odore si faceva sempre più selvaggio. Sentii il suo sparo, appena sopra di me, e il suo eco; imbracciai subito il fucile, trattenni il respiro non pensando pensando più a nulla se non alla bestia nera per premere il grilletto. L’agitazione si faceva più logorante. In quel momento sentivo solo più il battito cardiaco dominare sopra un sottofondo di ululati e voci basse alle radio.
Alzai il fucile, con la premura, la paura di non prenderlo, l’agitazione di non saper puntare, di rifare gli stessi errori dei cinghiali sbagliati nei giorni precedenti. Chiusi un occhio e subito vidi una sagoma nera passarmi davanti al mirino rosso, era bellissimo, la sua criniera era alta e sentivo il suo respiro affannoso per le ferite e la corsa che lo stava aspettando, ma era troppo tardi.
“Non l’ho manco toccato”. “Non l’ho preso” (per non dire tutte le parolacce) gridai. E invece si, vidi su un ramo sospendersi alcune parti di interiora. Lo avevo toccato sì, ma non era bastato per farlo scendere del tutto. Era scappato, ma non poteva più correre per molto. La sua morte era vicina e i cani dovevano essere premiati per il loro lavoro. Seguimmo insieme alla cagna le tracce del sangue fino ad arrivare al suo secondo fermo.
Non era facile vedere le macchie, le intravedevano sul suolo, fra le foglie cadute d’autunno e la neve dell’inverno. Erano piccole ma aiutavo la ricerca anche con le impronte delle zampe sulla neve spaccata. Seguivo poi l’andamento, i passi di Soraia, sentivo le sue parole attraverso i gesti. Luca mi gridava, lui era lì, che ci guardava. Non feci in tempo a sparare che per la mia mania sulla sicurezza avevo bloccato il mio fucile nel momento sbagliato. Vidi la bestia nel mezzo delle foglie correre come un lampo verso di me, caricandosi sulle mie gambe facendomi cadere all’indietro. Sentivo le gambe tremare, chiedermi perdono mentre Luca mi gridava addosso la sua rabbia per l’errore commesso su un cinghiale ferito. Mi alzai, con più grinta di mai. La sua fine era vicino, doveva esserlo. Corsi verso il torrente ghiacciato, le mie energie erano quasi esaurite per le mie mestruazioni e il calo di pressione (accidenti!). Erano belli da morire. Erano un dipinto nei miei più bei ricordi.
Gli urli di Soraia erano per me una melodia, impossibile da dimenticare. E quando vidi il cinghiale, avvicinarsi guardandomi negli occhi implorandomi per la sua fine. I nostri sguardi si incrociarono per l’ultima volta dietro il mirino rosso del mio amato franchi, poi premetti il grilletto. Un colpo, e poi, il secondo. Si gettò a terra, senza muoversi più. Lei fu ringraziata è riconosciuta per la sua bella impresa. “L’ho preso!”, “C’è l’ho fatta”. I miei compagni di squadra erano davvero felici di avermi dato possibilità di vivere queste nostre emozioni e soprattutto Luca per essersi preso il mio rischio per la mia giovane e scarsa esperienza su una passione che può divenire pericolosa, letale, con un solo colpo.
Gli abbracci, i baci, le risate, le urla alle radio, il battesimo e i nostri bicchieri alzati alla casa di caccia… Sono ricordi indelebili, inspiegabili se non dal viverli con tutto te stesso. Così è la caccia, una passione piena di emozioni, uno stile di vita ricco di avvenimenti da godersi. Così è la caccia: una storia d’amore fra me, e i cani condivisa con le persone della squadra del cuore.
Perrone Elisa
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