“Ho una femmina di cervo ancora da prelevare per completare il piano. La zona dove mi è stata assegnata però non la conosco affatto“, mi confida Paolo, invitandomi ad accompagnarlo a caccia nel magico paradiso di Camugnano. “Non la conosco affatto” detto da un cacciatore esperto e attento come Paolo, significa soltanto che non conosce per nome e cognome i cervi che vivono lì. Non ravviso nessuno più legato al territorio quanto lui! La sfida è molto intrigante, lo accompagno più che volentieri. Nel buio delle cinque del mattino i fari del suo fuoristrada illuminano i tornanti che la sua guida approccia con meno disinvoltura del “solito”. Dopo un bel po’ di curve due femmine e un piccolo di cervo ci attraversano la strada, regalandoci l’illusione di un buon auspicio per la giornata. Giunti quasi alla meta, scorgiamo in un campo sei sagome di cervi, illuminati dal chiarore delle ultime stelle di una notte di ventosa tramontana.
“Che ne dici di tentare una cerca lassù?” propone Paolo, poco prima di parcheggiare il fuoristrada. Aspettiamo che faccia giorno e sfruttiamo l’attesa studiando dal GPS la geografia della zona: identifichiamo un campo da raggiungere attraversando il bosco sulla cima. Lasciamo l’auto e, ben zavorrati di zaini e carabina, ci incamminiamo in salita. Lungo l’ascesa sbinocoliamo attraverso gli alberi. Con passo felpato camminiamo per circa una mezz’ora. Sbinocolando sulla nostra sinistra, a circa 300 metri da noi, individuiamo un branco di cervi. I cervi stazionano in un’area intricata, tra rami di ginestre spoglie, arbusti spinosi e radi alberi apparentemente secchi. Compatibilmente con la scarsa visuale concessa dallo sporco che li cela parzialmente, identifichiamo due fusoni e almeno due femmine.
Come l’occhio di bue illumina con la sua luce conica un punto del buio palcoscenico, solo uno strappo nella macchia ci offre la possibilità di vedere distintamente un animale alla volta, via via che si avvicendano nei loro lenti e apparentemente incongruenti spostamenti. I due fusoni, come due adolescenti che nel gioco misurano la propria forza e abilità nella lotta, si fronteggiano incrociando i solidi fusi. Prima uno indietreggia, poi spinge l’avversario, nell’antica danza ancestrale che celebra la virilità appena sbocciata. La nostra visuale è offuscata da numerosi, sottili rami che parzialmente ci nascondono ma che rappresentano insidiosi ostacoli alla visione nitida e soprattutto a un eventuale tiro.
“Proverò ad avanzare di qualche metro – sussurra Paolo – da lì mi pare che ci siano meno rami, da qui non mi azzarderei a tirare“. Le foglie morte che il vento di questi giorni ha reso fragranti rischiano di tradire i nostri passi. Decido di non muovermi e lascio che Paolo avanzi da solo, nella traiettoria semi-circolare con cui aggira i rovi, fino a posizionarsi a pochi metri da me. Il vento che continua a soffiare è a nostro favore, e i cervi non si accorgono dell’inevitabile scricchiolio dei passi di Paolo. Siamo esattamente sulla stessa traiettoria e abbiamo quindi la stessa visuale. Telemetro 270 metri, e la distanza che ci separa è a portata di bisbiglio. L’occhio di bue non inquadra più i fusoni, che si sono spostati sulla parte sommitale. Ora c’è un piccolo al centro della scena, mentre la sottile, che abbiamo scelto come capo da prelevare, s’intravede appena, parzialmente coperta dalle ginestre. E’ molto difficile tentare un tiro, sebbene la distanza non sia proibitiva.
Paolo si è sistemato a terra, la carabina è perfettamente stabilizzata grazie al bipiede e allo zaino. Riduce gli ingrandimenti al minimo per visualizzare meglio gli insidiosi rami che potrebbero interferire. Lo vedo spostare impercettibilmente la canna sullo zaino, le possibili traiettorie libere sono pochissime e ben stampate nella sua mente. Ma sono solo ipotesi, speranze: la femmina sembra non voler uscire allo scoperto. Improvvisamente un abbaio da lontano scuote le nostre orecchie. Anche i cervi sembrano allarmati, e alcun di essi dirigono prima lo sguardo e poi qualche passo verso la parte più fitta del bosco. Non tutto il branco però si allarma. Il piccolo scende di qualche metro e, nell’unico foro pulito, nell’occhio di bue di questo magnifico e misterioso palcoscenico, si staglia a cartolina la sagoma della femmina. Mi sembra di percepire esattamente i pensieri di Paolo. Calmo e con movimenti lenti ruota la ghiera dell’ottica aumentando gli ingrandimenti che aveva tenuto bassi per visualizzare i rami. Le sue spalle sembrano rilassate e il suo respiro regolare. Continuando a inquadrare la sottile con il binocolo, porto istintivamente i pollici a coprire i timpani, preparandomi al boato del 3oo WM che il freno di bocca ha dolorosamente amplificato.
Il branco di cervi, già allertato dall’abbaio di pochi secondi prima, schizza confuso e disordinato verso il bosco fitto. Non è facile valutare quali e quanti cervi siano andati via, coperti come sono da mille ostacoli visivi. La reazione al colpo della cerva resta un fumoso mistero intriso di speranza. “Ero fermo e concentrato…se questo colpo non è andato a segno l’unica variabile che non posso escludere è qualche ramo imprevisto” commenta Paolo, evidentemente emozionato. Non dobbiamo aspettare molto prima di raggiungere l’anschuss, la distanza che ci separa dalla cerva (speriamo!) richiede ben più di un quarto d’ora di cammino. Già da lontano un’estesa chiazza di sangue sulle ginestre verdi e spoglie ci invita ad avvicinarci con fiducia. A pochi metri dall’anschuss, la cerva esanime si offre ai nostri occhi, colmi di soddisfazione ma già rivolti al forte dislivello che ci aspetta per l’estenuante recupero.