Il bagliore magnetico dell’alba era già lì ad attenderci. I fili di stoppia scrocchiavano sotto gli scarponi, e noi cercavamo nell’ultimo buio scure chiazze erbose per poggiare i piedi in modo da rendere i nostri passi più silenziosi. Ogni otto-dieci passi, Vincenzo si fermava a sbinocolare: i campi non ancora arati tradivano la presenza di cespugli sul fondo giallo delle stoppie, e all’occhio vigile del cacciatore ogni ombra lontana si fingeva capriolo. Nelle ultime settimane si respirava una certa calma: le femmine erano state quasi tutte coperte, i maschietti baldanzosi che trotterellavano nel suo territorio erano sempre più elusivi. I mesi passati erano stati molto impegnativi, sia fisicamente che socialmente, e il vecchio boss della Querceta non perdeva occasione per affacciarsi sul campo a rifocillarsi col tenero trifoglio spuntato dopo lo sfalcio.
Sbinocolavamo a 360 gradi, lentamente, ma ci soffermavamo sempre lì, nel punto in cui le due colline s’incrociano, sotto le due querce che da lontano delineano un triangolo di cielo. Il giorno precedente avevo visto un capriolo in quel punto. Sotto di lui una femmina col piccolo, che si erano trattenuti pochissimo, mentre il maschio si era soffermato a mangiare molto più a lungo. La distanza misurata dal telemetro, di ben oltre 400 metri, aveva suggerito un cauto avvicinamento ma, giunti a metà della distanza stabilita, il capriolo si era dileguato con salti altissimi, inghiottito da un foro proprio sotto le due grandi querce. Quella mattina il ricordo del capriolo del giorno prima era un chiodo fisso, il miraggio che sembrava reale ogni volta che l’occhio finiva in quel punto.
Quel capriolo era il sogno che rincorrevamo da mesi. Averlo avvicinato il giorno prima era stata una grande emozione. L’erba nel giro di un mese era ricresciuta. Non era molto fitta ma, con un po’ di attenzione, poteva servire a dissimulare il pelo rosso che ancora ricopriva il poderoso corpo del boss. Solo alcune chiazze di grigio sui fianchi e sulle scapole presagivano la prossima muta: il corpo dei vecchi è più lento alle rivoluzioni e ai cambiamenti… Mangiava voracemente, ingolosito dalle foglioline di trifoglio, piccole e raggruppate in verdissimi ciuffi molto bassi. Era quasi fermo sul posto, concentrato nel recuperare il prima possibile le energie perse durante la tumultuosa estate, quando io lo vidi.
“Eccolo! È di nuovo lì!” esclamai, emozionata. Il binocolo di Vincenzo era già nei paraggi del punto magico, e non impiegò un secondo prima di intercettarlo. La distanza non era favorevole a un tiro sicuro e, senza nemmeno consultarsi, memori dell’azione del giorno prima, prendemmo zaino, carabina e treppiede e via su per il crinale. Risalendo il colle sulla cui cima pascolava il capriolo, ogni passo veniva pesato, meditato e temuto. Eravamo a 200 metri.
“Da qui vedo il filo schiena, non di più” dissi io, guardando nell’ottica della carabina che avevo poggiato al treppiedi. “Più avanti non andrei, rischiamo che ci senta o addirittura ci veda. Fermiamoci qui e aspettiamo che sia lui a fare la prossima mossa”, consigliò Vincenzo dissimulando, dietro la saggezza dell’accompagnatore, una forte emozione al cospetto del bel capriolo. L’animale mangiava voracemente, con la testa costantemente abbassata. Stavo lentamente spostando il treppiedi un metro più su, per riacquistare la visione anche parziale del capriolo; la canna della carabina era ancora a mezz’aria, la mano destra serrava i bei legni del calcio per adagiarlo sul supporto. Il capriolo alzò di scatto la tesa. I nostri occhi s’incrociarono: quelli tondi e neri dell’animale fissavano esterrefatti quelli miei concentrati. “Nooo! Ci ha visti, maledizione! Resta ferma…immobile….” La bocca di Vincenzo pronunciava parole senza muoversi. Dalle sue labbra trasudavano consigli misti a rabbia, delusione, amarezza. La carabina pian piano scivolò sul treppiedi, e il mio occhio scivolò sull’oculare dell’ottica. La ruota degli ingrandimenti scorreva pian piano verso i numeri più bassi, per ingaggiare il capriolo la cui posizione stava certamente per cambiare.
“Preparati verso sinistra! Vedrai che ora parte…” esclamò Vincenzo (“e vedrai che, come ieri, scompare nel buco sotto le querce”, pensò, senza dirlo per non avvilire la sua compagna). Appena il mirino si posò sul torace del capriolo, le sue agili zampe ricevettero l’impulso che la Natura gli ha donato per custodire la sua vita. Due balzi, non molto alti ma veloci, gli fecero guadagnare i primi metri in direzione del bosco. Avevo seguito il consiglio del mio accompagnatore e avevo orientato la carabina in direzione della via della ritirata del capriolo. I primi due secondi di fuga dell’animale sembrarono eterni. Increduli per l’epilogo dell’azione di caccia, stavamo già assaporando l’amaro che risaliva dallo stomaco. Poi il peso sulla bilancia del destino si spostò.
Vincenzo fischiò. Il capriolo, come trattenuto da una forza sovrannaturale, si fermò di colpo esattamente dietro l’unico rovo presente nel campo. Vincenzo non poteva vederlo. Io, che era a due metri da lui, avevo invece una visuale più favorevole, e potevo intravedere il fatato rosso del suo manto. Dietro le spine del rovo il bel maschio si sentiva quasi al sicuro. Non vedendo si sentiva non visto, e addirittura in quella sosta, figlia di un’inguaribile curiosità che l’aveva fatto cadere nella trappola del fischio, azzardò un boccone dall’erba.
Gli ingrandimenti scorrevano nuovamente sui numeri più alti: 8, 10…12. Quando il capriolo sollevò il capo, il bagliore delle punte del suo magnifico palco lampeggiò tra le spine. La freddezza che fino a quel momento aveva guidato i miei gesti, e la fermezza delle sue dita s’incrinò. Il pollice obbedì alla necessità di agire e armò la Blaser. La tenue luce del reticolo illuminato confortava la mira sul torace del capriolo. Cercavo di non guardare il palco, troppo bello per non suscitare meraviglia. Cercai di non pensare alla fuga del giorno prima, al fatto che tra meno di un secondo il capriolo sarebbe ripartito per sparire definitivamente nel bosco, ai pochi giorni prima della chiusura della caccia di selezione, ai mille appostamenti in cerca di “quel” maschio…non pensai nemmeno di avvisare Vincenzo che ero pronta a sparare, né a trattenere il fiato ed evitare di strappare il grilletto. La Blaser, telepatica, percepì e anticipò la sua intenzione, e il colpo partì senza preavviso. Il boato del 7×64 sembrò un sussurro all’orecchio di chi aveva sparato, ma risultò un pugno all’orecchio di Vincenzo.
I minuti canonici che seguono lo sparo sembravano eterni. Impazienti ogni tanto lasciavano andare un passo verso la sommità del colle. A metà strada il binocolo di Vincenzo svelò tra il finocchio selvatico il manto rosso del capriolo. Era immobile e attendeva solo che i suoi fedeli ammiratori venissero a rendergli gli onori. Tutta l’estate l’avevano cercato, lui si era sempre negato. Aveva difeso il suo territorio, distribuito i suoi nobili geni tra le femmine, lottato contro avversari e rivali. Aveva assaggiato tutti i teneri germogli che le stagioni profondevano sui campi, la rugiada che la notte vaporizzava sull’erba, i frutti colorati con cui l’inverno addobba gli arbusti del bosco per farsi perdonare i rigori del freddo. Ora era lì, sotto i nostri occhi ammirati e le nostre mani che lo componevano con rispetto, chiedendogli mutamente perdono per aver reso eterno nella memoria degli uomini e della natura il rosso estivo del suo manto che mai più muterà negli inverni a venire.