Mio padre fermò la macchina. Restammo un attimo in silenzio, ancora intorpiditi dalla levataccia. Strofinai la mano contro il vetro per togliere l’alone del mio fiato. C’era un freddo pungente nell’aria tersa del mattino, che penetrava fin dentro le ossa, rendendo vani gli strati di vestiti indossati per contrastarlo. Dall’abitacolo del fuoristrada si cominciavano a distinguere le prime forme, i confini, le curve della vallata di fronte a noi. Le tiepide luci di una gelida alba dicembrina iniziavano ad ammantare timidamente i campi e i declivi, andando a riscaldare quella leggera brina che si era adagiata sui prati nella notte. Scesi dall’auto. Il terreno fangoso sotto i miei piedi era ciò che restava della bufera del giorno prima. L’orizzonte si vestiva di una sfumatura pallida e le ultime stelle, ad un occhio attento, erano ancora visibili. L’aria era intrisa di un’umidità frizzante, che si propagava repentina nei miei scarponi. Presi il binocolo dallo zaino e iniziai a osservare la vallata.
Ancora qualche sparuto banco di nebbia si insinuava, lieve e sulfureo, tra le strette gole e i pendii boscosi. Le macchie e i vigneti balzavano subito all’occhio, ormai scheletri dai colori opachi, ricordo lontano dei trionfi d’autunno, del rosso e il giallo e il bruno di ottobre e novembre, delle tinte abbinate senza una logica apparente come opera di un pittore distratto. Mi dissi che il giorno in cui non sarei stato più in grado di stupirmi di fronte quello spettacolo, allora sarebbe giunto il momento di appendere il fucile al chiodo. Avrebbe significato non avere più emozioni dentro di sé, essere vuoti. Ringraziai Dio di essere lì a contemplare quella meraviglia; d’altronde non ricordavo di aver fatto nulla di particolare per meritare tutto ciò. Mi sembrò il minimo.
Feci un’altra panoramica con il binocolo per tutto il territorio davanti a me. Nessun movimento. L’unica presenza era quella di alcune vacche nel pascolo ai piedi della collina.
Dopo una serie di appostamenti infruttuosi, avevamo stabilito una tattica diversa dalla precedente. Nelle prime uscite infatti ci eravamo posizionati in un fitto ginestreto che dava su un campo aperto, dove avevamo più volte osservato il passaggio dei daini. Ma del palancone neanche l’ombra. Ci eravamo così confrontati con Massimo, il nostro maestro di caccia, sull’approccio da seguire. Grande esperto del luogo, ci aveva suggerito di cambiare radicalmente strategia. Esisteva infatti un piccolo borgo su un’altura che si affacciava sull’intera vallata, una vera e propria terrazza naturale da cui poter osservare il territorio per svariati chilometri. Signano, questo il nome dello sparuto gruppo di case, avrebbe potuto offrirci la possibilità di individuare il capo, per poi approcciare l’avvicinamento in un secondo momento. La caccia al maschio si era aperta da circa un mese, il primo di dicembre, ma nel nostro caso era iniziata parecchi mesi addietro. Almeno da luglio, quando in una fresca serata estiva la sorte ci aveva premiati con l’assegnazione di un daino adulto. Quasi stentavamo a crederci, che il sorteggio fosse stato così benevolo. Era un’opportunità da non farsi sfuggire; per la prima volta nella nostra vita potevamo insidiare il palancone. Sulla via del ritorno non avevamo fatto altro che fantasticare su quello che ci avrebbe aspettato in inverno. Il sogno di una notte di mezza estate. Occasioni così infatti capitavano poche volte nella vita, lo sapevamo. Una gioia ancora più grande sapere che la dea della fortuna aveva baciato anche Massimo, dopo addirittura vent’anni di attesa.
Eppure, iniziata la caccia, le prime uscite erano andate a vuoto.
Quella mattina, il 30 dicembre, man mano che il sole stava lentamente facendo capolino, ancora non avevamo visto nemmeno un capriolo, presenza di solito fissa in quella vallata. Il tempo intanto scorreva, inesorabile. La temperatura era salita, così mi tolsi i guanti. Le due vallate di fronte a noi erano divise da un paese di quattro case, Casola di Canossa. I daini erano quasi sempre comparsi ad ovest del paese, dove si trovava una fitta pineta che offriva loro un comodo riparo nelle ore diurne. Quel giorno però la mia attenzione fu catturata da alcuni movimenti ad est delle case. Un folto gruppo di animali pascolava placidamente su un declivio ancora all’ombra. Erano daini. Li vedi anche tu? chiesi a mio padre. Dove? Sotto il paese, duecento metri sopra le stalle. Gli feci un cenno. Visti. Sì, sono loro. Guarda con il lungo.
Presi in fretta il cannocchiale e appoggiandolo sul finestrino per mantenerlo stabile cercai di mettere a fuoco lo stesso punto. Individuai il gruppo e notai che, in mezzo a quella dozzina di animali, vi erano almeno tre o quattro maschi adulti. Mio padre non volle neanche controllare. Saltammo in macchina, dirigendoci in fretta verso il paese. Era arrivato il momento della verità; i pensieri iniziarono ad affollarsi nella mia mente. Con ogni probabilità i daini si sarebbero diretti lentamente verso i calanchi più a nord, dove incominciava la pineta, per riposarsi al sicuro dopo il pasto dell’alba. Nel momento in cui li avevo avvistati, prima di mettere in moto la jeep, erano ancora sotto il paese, ma senza dubbio si erano già spostati. Non c’era quindi tempo da perdere. Ci fermammo con la macchina al termine delle case e, camminando sulle uova, ci avviammo lentamente lungo la carraia fangosa. La mia intenzione era quella di posizionarsi in modo da sparare appena i daini avessero cominciato a risalire la vallata. Dopo esserci allontanati dalle case, caricai il fucile e misi in sicura. Costeggiammo una fitta siepe di rosa canina, cercando di posare i piedi sul bordo dello sterrato, meno fangoso. Gli arbusti ci impedivano la visuale sui campi in basso. Fu a quel punto che successe l’imprevisto. Dapprima fu un rumore di motore, che squarciò il silenzio del mattino, a metterci in allarme. Non riuscivamo a capire l’origine del suono fragoroso. I nostri dubbi furono presto fugati.
Un enorme pick-up bianco comparve dalla vallata, risalendo a scatti proprio il versante che stavamo per raggiungere. Cosa ci faceva lì, nel bel mezzo di un coltivo? Il rumore assordante, degno di un trattore di grossa cilindrata, ci gettò nella disperazione, mentre si sprecavano gli accidenti nelle nostre teste. Nel momento in cui il pick-up riuscì con un ultimo slancio a raggiungere la carraia sulla quale ci trovavamo, venne superato di colpo da una decina di caprioli, che si dileguarono rapidamente nel bosco. Mi balzò il cuore in gola. Mentre aspettavamo al varco lo scellerato autista, ecco l’ennesimo colpo di scena. Prima un daino, poi un altro, poi un altro ancora… L’intero gruppo avvistato solo mezz’ora prima si riversò al di là della carraia, a soli venti metri da noi, allontanandosi al piccolo trotto verso il calanco a nord. Eravamo pietrificati dall’emozione. Stava succedendo di tutto. Guardai allibito mio padre. Bastò uno sguardo per destarsi e decidere cosa fare. Nella speranza che non si fossero già dileguati nella macchia, a passi veloci e con la testa bassa seguimmo la direzione che avevano preso. Pregai nella mia testa che fossero ancora lì. Il binocolo mi rimbalzava sul petto mentre avanzavamo chinati come indiani e posai una mano per fermarlo. Increduli, scoprimmo che i daini erano fermi al limitare del bosco, intenti a pascolare come se nulla fosse accaduto. Ci accucciammo immediatamente a terra. Eravamo in una posizione di vantaggio, dal momento che una piccola cunetta del terreno riusciva a celare la nostra presenza e impediva loro di vederci. Ma dovevamo agire in fretta, gli animali presto si sarebbero messi al riparo tra gli alberi.
Mi sporsi in avanti e presi il telemetro e lo puntai. 120 metri. I palanconi erano addirittura quattro, più qualche giovane e alcune femmine. Senza farmi notare provai velocemente a riconoscere con il binocolo il daino con il trofeo più ampio. Era un imponente maschio, leggermente isolato dagli altri animali. Lo indicai con un cenno a mio padre, e in risposta ottenni un segno positivo. Era il nostro capo. L’animale che cercavamo. Senza dubbio. Era a una decina di metri circa dalla macchia. Non ci aveva sentiti. Il vento ci aveva graziato. Piazzai lo zaino per terra, sull’erba, e appoggiai la carabina. Avvicinai il gomito, cercando di mettermi in una buona posizione di tiro. Percepii l’erba bagnata sotto le ginocchia. Mi alienai da ciò che mi circondava. I rumori intorno a me si fecero ovattati. Chi sono io per dare la morte? Nessuno. Lo osservai nell’ottica. Fiero e magnifico, ignaro di tutto. Tolsi la sicura. È giusto porsi queste domande? Forse non dovrei pensarci. Non ora, almeno. Feci scivolare l’indice sul grilletto. Il freddo del metallo mi elettrizzò. Sì, è giusto perché siamo cacciatori, e ce lo siamo sempre chiesti. Fa parte della nostra identità, di quella dell’uomo. Da sempre, dai tempi antichi.
Avvicinai l’occhio destro. È qualcosa che ci appartiene. Rallentai i battiti. Cercai di non pensare a nulla. Apnea. Sparo.
Il colpo rimbombò nella vallata, seguito da una fuga generale del gruppo di animali. La carabina si alzò, così impiegai qualche secondo prima di riuscire a mettere di nuovo a fuoco il selvatico. Il palancone si era accasciato a terra, provando a reggersi in piedi con gli arti anteriori, in un ultimo, disperato istinto di vita. Una pacca sulla spalla confermò l’esito del tiro. Ce l’avevamo fatta. Attendemmo qualche minuto, interminabile. Quando ci alzammo per raggiungere l’animale mi accorsi che mi tremavano le gambe. Il cuore martellava incessantemente mentre i passi si facevano sempre più frettolosi. Il sole ormai riscaldava l’ambiente intorno a noi, mentre la natura, interrotta poco prima bruscamente dallo sparo, si riprendeva il palcoscenico, quasi incurante di quanto appena accaduto. Il canto degli uccellini allora riprese a scandire il corso del tempo, come a voler ribadire il sottile e indissolubile legame che vige tra la vita e la morte.
Il daino, maestoso e regale, giaceva all’ombra di un arbusto. Pareva un re addormentato, capace di conservare una fiera nobiltà anche nel sonno eterno. La testa era adagiata di profilo, con la corona baciata dalla luce del sole. Restammo qualche attimo in silenzio a contemplare le spoglie. Un vortice di emozioni contrastanti mi assalì, lasciandomi confuso, attonito, a riflettere, senza proferir parola. Non sentivamo il bisogno di parlare, semplicemente. Deve essere ciò che ogni cacciatore prova di fronte a qualcosa più grande di lui, pensai. E che non potrà mai raccontare a nessuno, perché solo chi ha vissuto può capire e tutto il resto sono parole al vento, vangelo per non credenti.
Gli recammo alla bocca l’ultimo, simbolico, pasto. Riposa in pace, figlio della natura. Mi ricordai le parole di Mario Rigoni Stern. La preghiera è stare in silenzio in un bosco.
La caccia; batticuore, turbamento, eccitazione, trepidazione, amarezza, bianco e nero. Qualcosa che dalla notte dei tempi porta l’uomo a farsi delle domande, a interrogare la propria coscienza. Una passione viscerale. Questo, e altro ancora. Ognuno di noi, nel suo piccolo, conserva la sua verità.
Alzai lo sguardo e vidi il sole ormai alto sopra di noi. In basso un trattore risaliva fiaccamente una carraia tra i campi. Qualche nuvola di fumo usciva singhiozzando dai tetti del paese. Le strade in lontananza si arrampicavano con ripidi tornanti sui colli della vallata. Nulla sembrava più lontano dalla civiltà, da quella civiltà, come quel preciso istante, come ciò che stavamo vivendo. Provai quella sorta di ebbrezza che pervade l’animo umano le volte in cui il nostro essere si accorge di assistere a qualcosa che non tornerà in futuro, a qualcosa del tutto eccezionale. Eravamo i protagonisti di un evento unico e irripetibile, di cui saremmo stati i soli custodi per il resto dei nostri giorni. Nostro. Ci riempì di gioia. Finita la caccia.
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Mattia Delmonte
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