Beretta S 58 s. Trap – di Emanuele Tabasso e Fabio De Rubeis. – A partire dagli Anni 70/80 la Beretta si è lanciata in maniera perentoria nel settore dei fucili da pedana dove ha visto, giustamente, un’alternativa e un’integrazione ai classici fucili da caccia. Le costrizioni sempre più marcate per i seguaci di Diana hanno spinto molti a frequentare i campi di tiro dove un’accorta politica di dislocazione, di allestimento, di accoglienza anche per chi tiratore non è, di varie specialità agonistiche hanno raccolto presto i meritati frutti di tanta semina. Oggi la percentuale di cacciatori/tiratori è notevolmente incrementata grazie anche al così detto Percorso di Caccia, e molti si dotano di un fucile specifico per evidenziare le proprie capacità ottenendo i risultati migliori.
Compiamo un salto indietro e arriviamo a una diecina d’anni dopo la fine della II GM: la Beretta spazia sul mercato venatorio imponendo i suoi sovrapposti derivati dai Mod. S. 55, 56 e 57 differenziati fra loro da allestimenti più o meno eleganti con incisioni sulla bascula, e da legni di maggior classe. La tipologia delle due canne sovrapposte è in pieno sviluppo, in diretta concorrenza con i primi semiautomatici nazionali fabbricati da Breda e da Franchi: chi ne fa le spese è la classica doppietta, il fucile del cacciatore di starne e di lepri, che si avvia a un’immeritata obsolescenza che durerà parecchi decenni. Arriviamo al nostro S. 58: il desiderio di sottoporre alla clientela un fucile specifico da tiro fa compiere all’azienda di Gardone il salto qualitativo. Nulla di trascendentale, allora sarebbe stato impensabile, ma un lavoro di fino sulla base tecnica esistente, così apprezzata per la sua incrollabile robustezza.
La tecnica
L’impianto vede una bascula con sezione a U dotata di fianchi spessi e di un particolare profilo della curva interna di raccordo al dorso da cui deriva la robustezza proverbiale di tale punto determinante; sul fondo scorrono in apposite sedi i due spingitoi sagomati per l’armamento delle batterie. Dietro alla cerniera sono avvitati i grani dei semiperni mentre la linea superiore, sempre riferendoci ai fianchi, presenta un angolo di circa 45° mutuato dagli studi dei primi S.3 su cui aveva già dato prova di ottimo successo: ne osserveremo la funzione relazionata con le canne. La linea superiore dei fianchi prosegue dopo l’incavo sotteso dall’inclinazione del profilo e di qui parte la curvatura della testa con l’inserimento della chiave, già del tipo a perno integrale con il corpo allungato e convesso e il pulsante elegantemente arrotondato e zigrinato.
Il sistema di giunzione delle canne si basa sul Monobloc Beretta, un’idea dell’azienda che, scostandosi dai canoni dell’archibugeria classica con il demibloc in prima fila, aveva privilegiato un contenimento dei costi e una garanzia a tutta prova con questo ritrovato, non nuovo di per sé, ma innovativo nell’esecuzione concessa dal macchinario più recente e dalla saldatura a Castolin, con temperatura ben inferiore alla brasatura a ottone: il risultato era il mantenimento della struttura molecolare dell’acciaio anche nei punti delicati di intervento come le culatte delle canne, e la durata indefinita grazie all’elasticità di quella lega d’argento che non incrudisce nemmeno con le vibrazioni dello sparo. Il monobloc dunque è un pezzo integro in cui vengono ricavati i fori di alloggiamento per le canne e i particolari per tenute e chiusure composti dagli orecchioni per l’incavalcamento sui semiperni. Le due mezzerie dei piani sono composte dal blocchetto prismatico anteriore e da quello posteriore inframmezzati dallo scasso in cui si posiziona il rilievo del fianco di bascula: si ripete così l’angolatura del profilo dei fianchi creando due piani inclinati posti a contrasto. Nei blocchetti posteriori viene praticato un foro assiale sede di due puntoni conici, per la ripresa automatica del gioco, mossi dalla chiave di apertura e sporgenti dalla faccia di bascula. La spinta in avanti delle canne viene quindi contrastata dai semiperni e orecchioni insieme ai piani inclinati di bascula e monobloc, mentre la rotazione è inibita dai puntoni: è noto come la geometria del sistema sia pressoché autostabile e quindi i due puntoni siano un’ottima garanzia lavorando in sostanza poco. Manca, volendo sottilizzare in via teorica, il vincolo tra vivo di culatta delle canne e faccia, ma ripetiamo che le misure in gioco, e parliamo di spessori, acciai e disposizione geometrica delle forze, non fanno sentire la mancanza di questa struttura: quella U richiamata all’inizio di queste righe compie davvero bene il suo lavoro senza flessioni di sorta.
Le canne di serie erano ricavate dal ben noto acciaio Antinit dell’austriaca Böhler, ma in questo esemplare si osserva l’Excelsior proposto dall’azienda quale opzione di maggior prestigio. Il peso, la foratura e le strozzature sono funzioni caratteristiche della progettazione di quegli anni con i valori rispettivamente di 1.440 g, sezione in asta di 18,3 e 18,4 per prima e seconda canna, con strozzature di *** e * mentre non variano le camerature del calibro 12/70. Un cenno alle strozzature con le tre stelle di prima canna, utili per le cariche di allora (36 e poi 32 g di pallini) con borra in feltro; i contenitori in plastica e la successiva diminuzione di carica a 28 e poi 24 g appiattiranno la funzione delle strozzature verso i valori di ** / * oggi imperanti. Sarebbe interessante rilevare i coni di raccordo con pendenze e lunghezze, ma non disponiamo dell’apparecchio apposito: di sicuro la prova sperimentale sul campo consente, ai chi è bravo, rotture magistrali anche a distanze da ultima spiaggia. Già all’epoca si era optato per una lunghezza di 74 cm quando alcuni fabbricanti di vaglia assecondavano i desideri dei tiratori con gli 81 e perfino gli 86 cm. Un punto a favore è dato dal padroneggiare con autorevolezza le odierne cartucce da 24 e 28 g, usate rispettivamente in prima e seconda canna: un pensiero riverente e di apprezzamento anche ai fabbricanti di cartucce che davvero compiono miracoli per ovviare all’incongruenza balistica di sparare 24 g in un calibro 12. Non manca la bindella da 10 mm ombreggiata e posta su ponticelli ventilati: all’origine recava il classico mirino sferico in ottone conservato al sicuro e sostituito da uno prismatico in plastica rossa: l’occhio del proprietario ha reclamato questa concessione alla modernità. SEGUE