Scrive Giulia” non sono esperta del settore ma poiché la causa dell’avvelenamento deriva probabilmente da uno o più strumenti di caccia (peraltro mi domando se non si tratti di bracconaggio), la caccia dovrebbe sostenere economicamente le cure.” Scrive Bruno” non è questione di bracconaggio ma di munizionamento e di mancato sotterramento delle viscere di animali abbattuti.” E via con altri commenti di siffatta natura…… Mi sono permesso di commentare questi commenti ricordando che le ferite riportate dall’aquila rinvenuta nel Parco nazionale del Gran Paradiso non parrebbero affatto causate da arma da fuoco, ricordando altresì che all’interno di tutti i parchi italiani, per effetto della legge quadro sulle aree protette n. 394/91 è vietata qualsiasi forma di caccia e che quindi l’aquila non può essere stata avvelenata cibandosi delle viscere degli animali abbattuti dai cacciatori “.
Se ne deduce che la caccia ed i cacciatori non hanno alcuna responsabilità sul ferimento dell’aquila rinvenuta e sul suo presunto e non ancora accertato avvelenamento. Un vecchio adagio recita: “denigra, denigra che qualcosa rimane…” Ecco la tattica usata dagli anticaccia: usare tutti gli strumenti possibili (comprese le falsità, le non accertate verità o le ipotesi fantasiose) per denigrare l’immagine della caccia e dei cacciatori. In un’opinione pubblica che non sempre conosce la verità, la disinformazione pilotata degli anticaccia in malafede corre il rischio di attecchire o di lasciare qualche traccia, soprattutto nella fase di preparazione dell’offensiva referendaria (on. Sergio Berlato – Presidente pro tempore dell’Associazione per la Cultura Rurale)