Alla ricerca dell’orice gazzella nella riserva del Damaraland, ad est del deserto del Kalahari
La mattina fresca, quasi fredda cuando il simpatico Alphonse mi svegliò a le 5.00. Mi alzo e vesto rapidamente mettendomi la giacca ed vado a fare colazione con caffè e toast. Più tardi, a metà mattinata, avremmo fatto uno spuntino con caffè e sándwiches per affrontare la giornata.
Poco dopo la colazione il ruggito della nostra Land Rover mi avvisa che è ora di metterci in marcia: dobbiamo coprire una distanza di 60 kilometri, attraverso tragitti non proprio comodi come le autostrade, per arrivare alla zona dove era stata avvistata una mandria di Gemsbock, come vengono chiamati in Afrikaans (la lingua parlata nella parte meridionale dell’Africa) gli Orici.
Per chi non li conosce, gli orici è un’antilope africana di grossa taglia, di altezza al garrese compresa fra 115 e 125 cm e lunghezza da 180 a 195 cm. Le femmine pesano da 180 a 225 kg, mentre i maschi possono arrivare a 240 kg. Si muovono in branchi di una decina di individui e sono dannatamente veloci e scaltri. A poco a poco il sole iniziava a sorgere, presentandosi lentamente come un disco rosso all’orizzonte, offrendo uno spettacolo che solo in Africa vi si può assistere.
Lentamente la luce iniziava ad ailluminare il territorio e si potevano intravedere in lontananza un’altra specie di antilope, il Kudu.
La nostra meta era la riserva del Damaraland, una zona situata fra l’Ovamboland (a nord), il deserto del Namib (a ovest), e il deserto del Kalahari a est. Quest’ultimo è parte di un immenso altopiano africano e si trova ad una altezza media di 900 metri. Copre il 70% del territorio del Botswana e parti dello Zimbabwe, della Namibia e del Sudafrica. Includendo, oltre al deserto vero e proprio, anche il bacino semi-arido che lo comprende si ottiene un’area di oltre due milioni e mezzo di chilometri quadrati. Il nome Kalahari deriva dalla parola Kgalagadi della lingua Tswana, e vuol dire “la grande sete”.
Gli Orici, si muovono con estreama agilità, sfoggiando corna molto lunghe soprattutto nei soggetti molto grandi di età.
Lasciamo il Land Rover a lato della strada e iniziamo a discendere il monte in direzione della vallata coperta da arbusti di acacia spinosa, una pianta che procura profonde ferite se si ha la sfortuna di camminarci in mezzo, poiché possiede delle spine molto appuntite e dure. Ciò rende difficile la visione del territorio e la maggior parte delle volte diventa impossibile distinguere la vegetazione dalla fauna, solo nel momento in cui quest’ultima inizia a muoversi.
Un altro problema che si presenta, è che se si riesce a vedere un orice tra gli arbusti non è detto che il colpo vada sempre a segno, poiché la maggior parte delle volte viene deviato dagli arbusti. Se l’antilope è lontana dagli arbusti, in una radura per esempio, non ci sono problemi a cercare una posizione migliore e prendere la mira.
Con tutte le precauzioni e calcolando la direzione del vento iniziamo ad avventurarci nel bush, la boscaglia, camminando lentamente e tenendo sempre i fucile pronto ad un incontro con gli orici.
Dopo un’ora di cammino, verso le 9.00 del mattino il caldo iniziava a farsi sentire e non c’era altro rimedio che sbottonarmi la giacca per far passae un po’ d’aria. Il terreno, arrivati in prossimità di una collina, si presenta con poca vegetazione ed offre spazi di manovra sia per me che per gli orici che potrebbero decidere di fermarsi qui. Io ed Alphonse ci troviamo nella parte più alta della collina e vediamo arrivare un piccolo branco di Orici, circa 5 esemplari. Da quella distanza possiamo stabilire se sono cacciabili oppure è meglio lasciarli andare se troppo distanti. Decidiamo di appostarci li in attesa del momento giusto, ma la fame si fa sentire e mangiamo qualcosa per calmare lo stomaco, mentre discutiamo la strategia da seguire. Dobbiamo necessariamente accorciare la distanza con gli Orici e seguire le tracce che lasciano intorno alla collina, nel caso in cui le dovessimo perdere di vista. Fortunatamente Alphonse è molto bravo a seguire le orme, anche se queste sono difficile da individuare, perché gli Orici se avvertono il pericolo non esitano a passare in mezzo agli arbusti, sparendo nella vegetazione.
Si avvicina mezzogiorno e l’acqua nelle nostre borracce sta finendo: o torniamo alla Land Rover vanificando la fatica e gli sofrzi er raggiungere quel posto, oppure resistere alla sete e provara a portare a casa un trofeo. Decidiamo di continuare e seguiamo gli Oroci che iniziano a spostarsi in direzione di un fiume secco; incrociamo un bell’esemplare di Kudu, ma quell’animale non era presente nella mia licenza di caccia, nella quale sono elencate gli animali che posso abbattere. Seguendo il canale secco, ad una curva del letto del fiume, scorgiamo il gruppo di Orici che siamo seguendo: sono tre femmine e due maschi giovani.
Stabiliamo di sistemarci ad una distanza di 150 metri dal gruppo e calcoliamo la distanza del vento: uno dei maschi è isolato dal gruppo : mi apposto, imbraccio il fucile e miro. Il proiettile 8X68 colpisce l’animale dritto al cuore. L’Orice cade a terra senza vita, mentre il resto del gruppo, spaventato dallo sparo, si dà alla fuga.
Ci avviciniamo all’animale con tutte le precauzioni per assicurarci che sia morto: è capitato che alcuni cacciatori si siano avvicinati senza assicurarsi che l’animale fosse morto e ne hanno pagato le conseguenze. Constatato che il colpo è andato a segno e che l’animale è morto, decidiamo di immortalare questa battuta di caccia meravigliosa con una fotografia, dove i protagonisti siamo io, Alphonse e l’Orice.
Racconto di E. Jaeger