il fagiano di monte
No, non mi riferisco al gallo forcello, ma al fagiano comune che, introdotto in montagna a fini venatori, talvolta ben vi s’accasa. Tale fasianide non ha nulla a che spartire col più nobile tetraonide, eppure cacciarlo in quota può essere un’esperienza assai interessante per cane e cacciatore. Man mano che agli istinti da voliera si sostituiscono quelli atavici, anche un «colorato» può diventare croce e delizia d’intenti cinegetici.
Tutto comincia con un fragore d’ali e Zurg che gli corre dietro
O, meglio, ricomincia: perché son già tre volte che quest’accidenti di fagiano ci fa fessi. Andava come un missile, il dispettoso fagiano, e i raggi del sole esaltavano l’arancione delle penne fino a farlo sembrare una proiettile incendiario.
Che s’ispirasse a un fagiano Igor Stravinsky, mentre componeva la musica del balletto russo L’uccello di fuoco? Dicevo che son già tre volte che il prode pennuto ci gabba. La prima fregatura ce l’ha rifilata almeno tre settimane fa: una lunga marcia di pedina senza mai concederci la grazia di farsi vedere per terra, marcia interrotta a un certo punto con un bel canto di scherno quando era già per aria e ovviamente fuori tiro. La seconda, domenica scorsa: lo troviamo quasi subito, poi mena letteralmente per il naso il buon Zurg in mezzo a uno sporco di rami secchi caduti e a un intrico di piante fino a rendersi definitivamente irreperibile, e arrivederci. «La terza cinque minuti fa, vero?» dico adesso a Zurg, che intanto è rientrato, con mezzo metro di lingua a penzoloni.
Lo osservo mentre mi sfila accanto, degnandomi appena d’un mesto dondolio di coda, per andare a tuffare il muso in una pozza d’abbeverata per le vacche poco distante: credo che il termine idrovora sia il più appropriato per descrivere l’intensità della sete. Peggio che se avesse inseguito un capriolo. E dire che era cominciata bene: Zurg prima aveva «fatto buono» tutt’intorno a un cespuglio di rosa canina, con le invitanti bacche rosse in bella mostra, e poi aveva preso l’infilata giusta per mettersi a guidare con sicurezza sulla traccia. Andava come avesse il navigatore satellitare: nemmeno un’incertezza, neanche nei passaggi più difficili, tipo quelli che hanno invece obbligato me ad aggirare rocce muscose o vegetazione spessa. E andava: a volte accennava una ferma, ma subito ripartiva. E io con gli occhi a guardare sempre più avanti, molto più avanti anche di dove poteva arrivare un mio eventuale colpo di doppietta. Nemmeno l’attraversamento di questo pascolo aperto mi ha dato modo di mettergli gli occhi addosso. Ma di quanto ci anticipava, lo «zampa lesta»? E poi infine la sua decisione di affidarsi alle ali e all’aria, naturalmente ben fuori tiro.
Scelta abbinata al classico sbeffeggio sonoro, che se ci penso adesso me lo sento ancora nelle orecchie. «Ah, Zurg: con questo pennuto siamo messi così» spiego ora al korthals e anche a me stesso, con un’alzata di spalle «è un cliente difficile, un beccuto intrattabile». Il mio amico a quattro zampe motrici mi è tornato adesso vicino e mi guarda da sotto in su con espressione incerta: dalla folta barba gocciola acqua di pozza, che però subito si trasforma in un turbine d’umidità centrifugata da uno scuotimento repentino e violento, che partendo dal capo termina alla coda cionca. Si sa che il korthals non ha mezze misure: a guardarlo adesso, con la «pettinatura» in completo disordine e i baffoni sparati in mille direzioni, non posso che sorridere. Ma appunto, anche questo è il korthals: un misto di forza, ruvidezza e simpatia. «Beh» dico «tentar non nuoce, al massimo ci verrà un esaurimento da frustrazione.» E quindi ripartiamo, andando dritti verso la direzione di fuga del fuggiasco volante.
Mentre vado, ripenso a questo pennuto da importazione. Per quel che ne so io, su da me a Bosco Chiesanuova, è stato introdotto nei primi anni Sessanta quale preda per i cacciatori da ferma in riserva privata. Si era allora, almeno su da noi in montagna, agli albori del fenomeno del turismo venatorio e offrire un bell’animale ai cacciatori che fin quassù salivano fu una bella pensata. Nel «pronta caccia» il fagiano fu quindi affiancato alla pernice rossa e negli anni successivi al «simil-cotorno» d’importazione, il cosiddetto chukar. I gestori della riserva non stettero tanto lì a fare dei lanci mirati per avere il massimo della «resa sul campo di battaglia»: semplicemente andarono e liberarono i fagiani ai quattro venti. A centinaia. E quindi qualche «colorato» e qualche «mimetica» si spostarono anche al di là dei confini della riserva privata, per andare dunque a offrirsi al piombo della comunale. I cacciatori di allora, al pari dei loro pointer e bracchi, rimasero dapprima stupiti e poi affascinati da questo nuovo strano selvatico mai visto e fiutato prima: abituati com’erano alla sola fauna autoctona, videro e annusarono nel fagiano un qualcosa di esotico, quasi misterioso.
A quei tempi, su da me, la caccia vagante era soprattutto lepri e beccacce, cui s’aggiungevano in piccoli numeri coturnici e forcelli, un gallo cedrone e un capriolo ogni tanto, quest’ultimo in battuta coi segugi. Stop. Quindi trovarsi davanti a cane e schioppo questo nuovo uccello fu una novità cinegetica assai interessante, che difatti in breve tempo conquistò i cuori dei cacciatori montanari: sull’onda anche del boom economico, si cominciarono a fare lanci di fagiani d’allevamento anche all’interno della riserva comunale e i carnieri di tipica alpina furono quindi integrati col nuovo arrivato. Fino ai giorni nostri. Anzi, al mio, quello che si chiama oggi. Perché, strano ma vero, gli stiamo già attaccati: Zurg sta guidando con cautela ed io sto appresso alla sua corta coda tesa. Guardo avanti, ma con scarso ottimismo: sono ben conscio della difficoltà d’approssimarmi a questo inavvicinabile «colorato» e ho ben presente che sinora la fortuna ha remato contro. Eppure andar si deve. E pure sperare. Adesso entriamo decisi in una faggeta e i rami, mezzo spogli e rivolti all’insù, sembrano associare la loro muta supplica al cielo autunnale alla nostra: dove stai andando, amico fagiano? Fermati
Ma il destino vuole esaudire per davvero le nostre preghiere venatorie?
Perché adesso, tacchete!, Zurg s’inchioda in ferma
Lo vado ad accarezzare velocemente sul dorso mentre lo sopravanzo: lo so che debbo guardare avanti. Ma tra foglie secche e rocce affioranti nulla si muove. Che stavolta si sia rincantucciato qui vicino? Ma va là, troppo bello per essere vero: il valente korthals prima mi raggiunge e poi mi supera deciso, legato com’è a doppio filo all’emanazione. Adesso lo vedo rallentare sulle zampe, fino a fermarsi. Dopo, volta piano piano la testa di lato, e al cambio di sguardo corrisponde un adattamento lento della postura: ora muso e corpo sono quasi in linea e puntano dritto in avanti. Zurg è come imbalsamato in una concentrazione assoluta, sembra quasi che lo veda. Il fagiano latitante, intendo. Gli sono a fianco, ma se lui col naso vede io con gli occhi no: perlustro palmo a palmo il terreno che ci sta di fronte, ma nulla di sospetto aggancia il mio sguardo.
Adesso molla: continua però a guardare fisso in avanti, mentre le zampe sotto si muovono piano come indipendenti. Dove sei? Ma le rocce intorno non hanno risposta, e nemmeno i tronchi dei faggi. Zurg insiste nella sua lenta guidata e io gli sono al fianco con la doppietta sollevata a mezz’aria, mezzo pronto e mezzo prevenuto: riusciremo oppure no ad andargli a tiro? All’improvviso Zurg comincia ad andar via più sciolto e spedito, quasi alleggerito dell’incombenza. Siamo già sul limitare del bosco. Guardo fuori lo spiazzo aperto dei pascoli e come me fa Zurg: ma niente, nemmeno l’ombra del fagiano. Il prode korthals ritorna sui suoi passi, come a voler riannodare il filo interrotto. Subito no, ma poi sembra riuscirci: per qualche secondo sta lì immobile col naso incollato per terra, a leggere un qualche messaggio odoroso, che poi traduce in uno scarto repentino di direzione abbinato ad una andatura più lenta e controllata.
Che sia la volta buona? O una delle tante? mi rispondo da solo, mentre lo osservo riprendere velocità. Già, adesso il passo ritorna a essere più spedito e subito anch’io mi adeguo. Eppure non sembra andare a caso, senza una rotta precisa: mi sembra che voglia soltanto colmare un ritardo, uno di quei distacchi che certi fagiani scafati sovente frappongono, con un’accelerata fulminea, tra essi e gli inseguitori. E infatti: il gioco del tira e molla, ferma e guida e guida e ferma, riprende un bel po’ più avanti. Siamo di nuovo in pieno bosco. Guardo un attimo per aria: adesso soffia una brezza che fa tremare le foglie residue sui faggi e il sole è sparito dietro a una cortina di nuvole spesse. Torno con gli occhi sulla situazione contingente, ma nulla è cambiato: ancora ferma e guida, e io dietro, come un pellegrino sostenuto dalla fede. Non si sa mai che… occhio!, mi dico mentalmente, a una frenata di Zurg più repentina delle altre. Ma no, la solita finta… si riparte. Ma stavolta parte anche lui, il fuggitivo. Mi si materializza là davanti, in un fragore di ali e un turbinio di foglie secche. «Coco- co-co-co!» Adesso nuota all’insù nell’aria, con tutta la forza dei suoi muscoli pettorali, e non faccio nemmeno in tempo a inquadrarlo al di sopra delle due canne giustapposte che lui, subito, piega di lato ad ali aperte, cercando di prendere l’abbrivio giusto, quello che gli permetterebbe di imboccare la discesa in mezzo ai tronchi. Ma non fa in tempo: c’è un istante in cui sembra un aereo di fuoco che vira, un istante in cui mi mostra tutta l’estensione alare e mi offre parte del dorso, ed è quello che vado a cogliere con un colpo di seconda ben accompagnato. Mi sembrava di aspettarlo da una vita, questo benedetto istante. Così sento, mentre le ali si chiudono e la testa reclina. Il fagiano cade di botto e il rumore sulle foglie è deciso per quanto attutito. Zurg è già là, con la rapidità di un rapace: anche lui aspettava da tempo questo benedetto istante. «Va bene» dico, soffiando adesso fuori tutta una tensione che nemmeno sapevo di portarmi dentro. Ma a ben pensarci, in effetti è da un bel po’ che siamo impegnati: saranno almeno tre ore. Già: questo capita quando un Phasianus colchicus, accantona il nome altisonante e la dubbia fama di gallinaceo d’allevamento per ripescare dai reconditi meandri del suo codice genetico tutte le strategie di sopravvivenza. Per abitare un mondo in cui la sorte l’ha posto come preda, sappiamo tutti che gli tocca di scaltrirsi alla svelta per non soccombere. Meglio dormire inalberato piuttosto che a terra alla mercé di sorella volpe. Meglio affidarsi ad una corsa silenziosa per seminare il cane tenace. Meglio, molto meglio, l’iniziativa invece che l’immobilismo. Già. A tutti i trucchi del mestiere del fagiano selvatico deve ricorrere quello d’allevamento per non rimetterci le penne. E allora la caccia al fagiano ritorna ad essere caccia vera, non semplice per quanto legittima «caccia di consumo». Caccia vera tipo quella che mi hai regalato tu, amico «fagiano di monte», che non avrai le penne nere e la coda arcuata del tuo compagno di classe Aves ma che il titolo te lo sei ampiamente guadagnato sul campo. Guardo adesso Zurg, che mi sta portando il fagiano: se la prende con calma, come se volesse far durare più a lungo il suo momento di beatitudine post eccitazione. Apro la doppietta, la poso piano per terra e sorrido: sì, alla fine ce l’abbiamo fatta. Attendo Zurg accosciato, per fargli i meritati complimenti. Ma lui invece non viene a prenderseli. Mi si ferma lì davanti, poggia il fagiano con delicatezza a terra e poi si siede. Tutto sommato siamo due vecchi amici, cui talvolta le parole sembrano superflue.
Diana 11-2010 – Testo e foto di Claudio Zanini